CENTRO PREVENZIONE SALUTE MENTALE DONNA

Responsabile: dr. Elvira Reale

 

 


 

Parte I

Analisi di un modello di intervento

1.Presentazione del Manuale

2.disagio malattia e servizio di salute mentale per la donna

3.Il contenuto attuale della ricerca

4. Metodologia dell'intervento 

5. Le fasi dell'intervento

6. Considerazioni sul modello di intervento

 

Parte II

Gli strumenti di interventi

I protocolli di intervento: la struttura

Analisi della percezione di malattia

Analisi della vita quotidiana

Le interviste alle utenti  sul percorso di uscita  dal disagio

Analisi dei dati clinici 1981-85

 

  Il Forum

 

 

 

 

 

Manuale di intervento sul disagio psichico della donna

 

Abstract

 

E' in corso dal 1981 un lavoro di decodifica e trattamento dei disturbi psichici che ha riguardato l'intera utenza femminile dei Servizio di salute  mentale della USL 39 di Napoli negli anni 1981-87. Si tratta di 1.103 pazienti con ogni tipo di patologia psichiatrica. 

Sono stati raccolti dati su: la provenienza socio-culturale; la trafila medico-psichiatrica; i sintomi come percezione soggettiva del malessere; gli,  eventi della vita quotidiana; l'organizzazione del lavoro familiare e extra  familiare. Da questi dati non sono emerse correlazioni significative tra specifici fattori socio-culturali o determinati life-events e l'insorgenza  del disturbo.

E' risultata invece significativa la relazione tra disturbo psichico e determinati cambiamenti di condizione (maternità, matrimonio, ecc.) all'interno del ruolo femminile quando essi si associano ad un aumento/ampliamento dei carichi di lavoro e di responsabilità. Emerge che i maggiori rischi di malattia per le donne cadono all'interno della fascia di età 25-34, fascia in cui - nel nostro contesto culturale - si concentra il più ampio ventaglio di richieste riguardanti l'adempimento delle funzioni  tipicamente femminili (epoca della maternità e dei figli piccoli). L'analisi ha evidenziato come fattore rischio principale il sovraccarico di compiti e responsabilità contenuti nel lavoro materno e nel doppio lavoro.

Come  condizione di vulnerabilità é stata individuata la precoce immissione nel  ruolo materno attuata nell'adolescenza o nella pre-adolescenza (ruolo di  sostituzione o di,sostegno di una figura genitoriale). 

E' stata inoltre elaborata una metodologia di intervento che, dando rilevanza ai carichi di lavoro e di responsabilità del quotidiano femminile, individua lo specifico percorso di ammalamento della donna.

Gli strumenti di intervento elaborati in protocolli e raccolti nel  Manuale, sono:

a.       la cartella clinica;

b.      il protocollo di rilevazione della vita quotidiana e della storia personale;

c.       il  protocollo di rilevazione della percezione di malattia;

d.       il protocollo di  intervista all'utente.

 

 


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I.                     PRESENTAZIONE DEL MANUALE

 

             Il manuale che qui presentiamo raccoglie l'esperienza di lavoro del Servizio donne di salute mentale. La sua redazione è servita da un lato per sistematizzare le elaborazioni teorico-pratiche che il Servizio ha compiuto dopo il 1982 sui temi della salute mentale femminile, in maniera da render ragione di un percorso che non possiamo ancora considerare esaurito; dall'altro, per fornire una griglia di comprensione del problema, e di guida all'intervento ad ogni operatore che sia a ciò interessato. Nel corso degli ultimi anni, varie occasioni d'incontro hanno permesso di comunicare la nostra esperienza ad operatori della salute di servizi pubblici, sia in Italia che all'estero. E con loro non ci si è limitati ad un resoconto dell'esperienza, o ad esprimere le nostre riflessioni sul problema in discussione: si è invece sempre puntato - per quanto possibile - a comunicare anche il come noi lavoriamo, e come essi stessi potevano avvicinarsi fruttuosamente alla sofferenza della donna. [1]

Mancava però un testo che raccogliesse organicamente gli strumenti d'intervento fin qui elaborati, rendendoli disponibili agli operatori di Servizi che si confrontano anche con realtà per qualche aspetto diverse da quella in cui noi lavoriamo. Il Manuale intende rispondere anche a questa esigenza, che ci è stata segnalata da più parti.    Il Manuale rappresenta inoltre la proposta di una alternativa rispetto a pratiche psichiatriche che hanno finora mantenuto caratteri di: controllo sociale, nonostante il mutamento di scena operato con la chiusura dei manicomi.  

 In esso troviamo ipotesi, metodologie e strumenti di intervento, che guardano alla persona con disturbo psichico da una angolazione diversa da quella psichiatrica tradizionale. La persona con disturbo psichico è messa al centro della riflessione: essa è il punto di partenza della ricerca e dell'intervento. La persona sofferente è vista nella sua dimensione sessuale e sociale, di soggetto espropriato di alcuni diritti e capacità. E questa espropriazione non è vista solo come frutto della malattia, ma come antefatto della malattia stessa. Su questi antefatti - storia personale, familiare, sociale, vita quotidiana - si muovono l'indagine e la ricerca, sia quella individuale con l'utente, sia quella generale sui metodi d'intervento dell'operatore.

La ricerca scorre lungo la vita personale dell'individuo sofferente a trovare i segni della espropriazione. Questi segni devono poter essere riconosciuti dalla persona, oltre che dall'operatore, per poter su di essi costruire un'alternativa concreta alla malattia. 

            La pratica sociale dell'operatore è tutt'uno con un agire che restituisca senso alla sofferenza individuale.    In questo ambito   della ricerca e dell'intervento manca - e non potrebbe non mancare - ogni riferimento ad un sapere dell'operatore sulla malattia come categoria "scientifica" separata dalla vita quotidiana e dal sapere dell'utente.   

Il Manuale scopre allora la possibilità per l'operatore di condurre una efficace attività di salute mentale senza ricorrere agli abituali strumenti della pratica psichiatrica; e cioè: diagnosi nosografica, osservazione comportamene, controllo farmacologico e fisico, forme nocive di protezione sociale. Scopre cioè la possibilità di fare ameno di una serie di parametri di riferimento e di tipologie di intervento che - molto più di quanto non si creda - si sono trasferiti, cambiando talora solo nome, da pratiche psichiatriche arretrate e di stampo tradizionale a pratiche psichiatriche che si definiscono nuove e avanzate. Ciò è tanto più necessario nel momento in cui le pratiche "nuove" e "avanzate" vivono momenti di confusione e difficoltà: confusione che riguarda la funzione e il ruolo degli operatori della salute, difficoltà che riguardano le capacità di progettare servizi funzionali all'utenza ed ai suoi bisogni differenziati di salute e benessere.   

Si ripropongono cosi, sotto nuova veste, vecchie tecniche, come ad esempio l'elettroshock di cui si dice ufficialmente che è stato troppo superficialmente liquidato.  

 Fiorisce l'uso degli psicofarmaci, che attraversa una nuova era con l'immissione massiccia sul mercato dei neurolettici a lunga azione. Si razionalizzano le tecniche medicali: dall'uso "ragionato" dei farmaci, ai ricoveri in ambienti ospedalieri non manicomiali. Si unifica il fronte dell'emarginazione, includendovi le persone portatrici di un disturbo psichico, e si approntano proposte organizzative di largo respiro contro l'esclusione del diverso. Si diversifica il disturbo dei "sani" da quello dei "malati". Scompare, in ognuna di queste differenti pratiche, la realtà personale del disagio psichico, la sofferenza di chi ritiene in qualche modo - a torto o a ragione - di essere diverso, di essere incapace, di essere pericoloso a sé e agli altri. Questa scomparsa dalla scena dell'individuo sofferente inghiottito nei posti letto della clinica, nell'uso massiccio di psicofarmaci, nella generalizzazione di una realtà emarginativa, nella suddivisione del malessere in grave e meno grave, condanna la persona all'incomprensibilità delle ragioni del suo disagio e ad un destino di cronicità.   

Il Manuale, a differenza di queste pratiche, dà asilo ad una condizione di sofferenza, specifica e concreta: quella femminile.

La parzialità degli strumenti che presentiamo, nel senso che riguardano specificatamente l'universo femminile, garantisce proprio quel rapporto concreto con la vita quotidiana della persona, che si differenzia per genere e condizione sociale, e che è l'unica fonte attendibile per la comprensione del disagio psichico.    Questa parzialità tuttavia avvia la possibilità di riflessioni più generali che riguardano sia l'uso di una analoga metodologia per la comprensione del disagio maschile; sia il ruolo e la funzione dell'intervento dell'operatore di salute mentale.

 


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2.  DISAGIO, MALATTIA E SERVIZIO DI SALUTE MENTALE PER LA DONNA

 

            2.1.  Le valutazioni che esponiamo in questa sede non partono da acquisizioni ed approfondimenti esclusivamente teorici. La riflessione critica è essenziale come momento di necessaria estensione della pratica di lavoro all'interno di un Servizio di salute mentale per le donne.  

            Il poter ridiscutere assunti teorici ritenuti immodificabili, o punti di vista assunti come dominanti, permette di procedere nel lavoro di critica alla psichiatria e nell'ampliamento di uno spazio di comprensione del disagio femminile.   

Il tema della discussione che affrontiamo è costituito dall'analisi delle differenze che intercorrono tra l'approccio psichiatrico al disagio femminile, e la pratica di lavoro da noi sperimentata.   

Ipotesi iniziale da cui partiamo è l'inattingibilità del punto di vista della donna sofferente dietro le codifiche e i giudizi della scienza psichiatrica; questi ultimi sono considerati nella nostra ottica fuorvianti rispetto ad ogni possibilità di comprensione - da parte della donna - del- le ragioni della propria sofferenza, e determinanti la deformazione c/o la stabilizzazione della sofferenza in malattia.   

Riteniamo infatti che la sofferenza abbia i suoi riferimenti precisi nella vita quotidiana, nella storia personale, nelle contraddizioni socia- li, e in modo specifico per la donna, nelle contraddizioni legate alla con- dizione sessuale. Alla sofferenza attribuiamo un valore di trasformazione che è possibile rintracciare solo attenendosi ad un punto di vista che è interno al soggetto cui la sofferenza si riferisce.   

La malattia al contrario trova il suo riferimento solo nelle categorie di giudizio della psichiatria; essa costituisce una separazione della sofferenza dai luoghi concreti dove essa si è prodotta, e un distanziamento dalle possibilità di sua trasformazione. Il punto di vista della malattia è esterno al soggetto, ed è pertanto acquisito o acquisibile solo attraverso l'intervento di un tecnico.   

Che il giudizio di malattia costituisca un elemento di distanziamento della coscienza di un individuo dalle ragioni materiali e morali della sua sofferenza è visibile sia nella pratica attuale che nella pratica storica della psichiatria. Su ciò intendiamo approfondire il discorso, apportando alla discussione elementi di valutazione sulla disfunzionalità dell'intervento psichiatrico - che si muove sul terreno e nell'ottica della "malattia" - alla comprensione della relazione tra sofferenza, disagio e specifiche condizioni di vita di determinati soggetti sociali.

 

2.2. L'esperienza di lavoro e di ricerca svolta nell'arco di otto anni dimostra come la sofferenza della donna trovi una possibilità di comprensione nel momento in cui si abbandona l'ottica della malattia - ottica che può essere dell'operatore ma che è anche dell'utente - e si dà attenzione ai luoghi e interni e esterni dell'oppressione femminile. Si ricercano cioè con la donna i modi in cui si è strutturato nel quotidiano e nella storia personale il suo ruolo contraddittorio e produttore di sofferenza.   

Una tale esperienza ha avuto ed ha delle caratteristiche che brevemente vogliamo sintetizzare. Il lavoro svolto con le donne è frutto di una scelta di un gruppo di operatrici dei servizi pubblici di salute mentale di Napoli, ed è stato attuato in manicomio prima e sul territorio poi. Questo lavoro ha portato sul piano istituzionale alla creazione di un servizio gestito da soli tecnici donne (di cui alcune operatrici di ruolo ed altre volontarie) e rivolto esclusivamente alla utenza femminile di un'area della periferia urbana di Napoli (U.S.L. 39 con 140.000 abitanti, e nel dopo- terremoto stimata intorno ai 200.000 abitanti).  

 Il lavoro si è svolto con un intervento radicato e collegato con la storia personale e la vita quotidiana della donna, vista nel rapporto con una serie di prescrizioni e norme sociali che entrano nell'organizzazione del ruolo femminile.   

La nostra ricerca ha messo in luce la particolarità degli strumenti usati per la valutazione dell'intervento: al centro dell'attenzione è stato posto esclusivamente il punto di vista della nostra utente, anche se in contrasto ed in opposizione con il suo contesto relazionale.[2]

Obiettivo complessivo dell'intervento è stato infatti il superamento della percezione di malattia, con la quale la donna si presenta inizialmente al Servizio, e la modifica della richiesta iniziale che è generalmente quella di ritornare ad essere cosa come si era prima della comparsa della   cosa detta malattia. L'obiettivo perseguito dal Servizio non è il ristabilimento della situazione definita di "normalità", che contiene in sè gli elementi di sofferenza che, inespressi e incompresi, hanno condotto la donna verso la percezione di una propria diversità e anomalia. Si mira   invece con la donna alla costruzione di livelli di benessere, che molto spesso non sono stati mai esperiti, o esperiti solo a livello di desiderio, o ancora sperimentati in brevi periodi ma soffocati dall'esterno, o autorepressi in relazione alle indicazioni provenienti dall'esercizio di un "corretto Il ruolo al femminile.

 

2.3.  Nel lavoro svolto con le donne nel Servizio di salute mentale, ciò che va sottolineato è l'uso sistematico di strumenti di analisi del disagio non più attinti dal sapere psichiatrico, ma al contrario in aperta contraddizione con esso.

Le riflessioni avviate sulla scorta di questa nuova operatività hanno comportato delle revisioni    sia del modo attuale di gestire il disagio psichico da parte della scienza che è principalmente deputata a ciò (la psichiatria), sia del modo in cui storicamente la psichiatria ha sviluppato le sue competenze nella gestione della malattia mentale, e delle sue implicazioni nei processi di stigmatizzazione delle condizioni di vita della donna[3].

L'ipotesi che ha guidato il nostro lavoro è quella dell'esistenza di una specifica condizione di disagio della donna nell'attuale società.  Essa è rilevabile dalla qualità distintiva e prevalente con cui le donne si "ammalano" e si presentano al servizio psichiatrico, pubblico o privato che sia. Le donne ricorrono abitualmente alla pratica di autodenunciarsi come malate, e nel definire il loro malessere si riferiscono in prevalenza a deroghe tentate od attuate dal proprio ruolo e dalla propria condizione di vita. Si è rilevata inoltre una presenza massiccia di donne nei circuiti della psichiatria, il che indica un legame preferenziale - sia attuale che storico - tra l'istituzione psichiatrica e la condizione femminile: ciò che si può affermare e che trova conferma negli studi fatti sulla specifica devianza femminile, è che il tipo di deroga dal sociale che la donna più facilmente vive riguarda la sfera del privato. Questo ambito è storica- mente campo di competenza delle scienze psicologiche, e della psichiatria per quanto concerne il terreno del "patologico".

2.4                   Sulla base delle ipotesi di partenza, la metodologia di approccio al disagio usata in prima istanza, con il silenziamento degli strumenti psichiatrici (osservazione oggettiva dei sintomi, inquadramento diagnostico), e con l'apertura invece di uno spazio di ascolto ai contenuti concreti della sofferenza, ha permesso il capovolgimento di una pratica di intervento consolidata dal tempo e dal consenso sociale.    L'esser partite dalla condizione di vita delle donne, l'aver messo al centro delle nostre analisi il ruolo femminile e l'insieme delle funzioni e dei modelli di cui esso si compone, permette di dare una lettura del disagio femminile esterna alla logica ed ai criteri interpretativi della scienza psichiatrica.   

Il riferimento diretto al disagio, così come si origina da determinate condizioni di ruolo sociale, impedisce di cadere in quella che si rivela una impasse: la definizione di malattia.   

La auto- od eterodesignazione di "malata" propone sia alla donna che al tecnico una esperienza di frattura tra ciò che si considera normale e ciò che si considera deviante/patologico. E' questa una frattura che a nessuno è dato ricucire se non con il sacrificio della cosi detta parte malata.

Dall'analisi diretta delle condizioni di sofferenza della donna cosi come si esprimono: nel suo quotidiano, nel lavoro produttivo e riproduttivo e nel loro reciproco comporsi e sovrapporsi, nell'organizzazione del tempo libero, nelle relazioni affettive, nell'adesione ai modelli di ruolo, nasce invece la possibilità di un diverso rapporto con il tema della malattia.    Emerge infatti come la malattia sia l'ultima tappa di un percorso che parte dalla costruzione di una identità di ruoli, caratterizzata da livelli di minor potere e da vissuti di dipendenza e di subordinazione, e giunge all'ammissione ed al riconoscimento da parte della donna di una propria in- capacità ad essere come quel determinato modello di ruolo richiede.   

Il riconoscimento della propria incapacità non è mai, da parte della donna, solo teorico: esso si esprime concretamente nel momento in cui si verifica la interruzione di una qualche funzione, di un qualche compito, di un modo di essere o di pensare che prima funzionava perfettamente nella logica degli adempimenti richiesti alla donna dal contesto in maniera esplicita od implicita. Questa interruzione (non occuparsi o desiderare di non occuparsi dei figli; non occuparsi della casa o non desiderare più di farlo; non voler svolgere il doppio lavoro, ecc.) comporta per la donna vissuti di incapacità e di inadeguatezza al ruolo che la identifica socialmente come donna. Essi le aprono la strada della percezione di malattia: cioè di una incapacità denunciata senza propria colpa né responsabilità. Il rivolgersi alla istituzione psichiatrica ha allora il senso di trovare una definizione ed una interpretazione di questa presunta incapacità che non alteri i propri modelli di ruolo, la propria immagine sociale.   

Nello stesso tempo, la conferma di una propria irresponsabilità ed estraneità, insite nel giudizio di malattia, rafforza nella donna una percezione svalutante di sé. L'unica via d'uscita che allora si prospetta è quella di rientrare nelle funzioni che hanno provocato sofferenza e disagio tanto da dover essere più o meno bruscamente interrotte.   

Il non partire dalla malattia, ma vedere questa come punto di arrivo di un percorso che parte dal quotidiano, evita il limite invalicabile delle pratiche che si pongono come obiettivo la trasformazione dell'esistente. il prendere atto e con ciò confermare il significato di patologia che la donna dà, già per suo conto, a determinati gesti e vissuti.   

Attestare la malattia, e l'esistenza di essa come dato della realtà non gestibile dalla donna stessa, significa accettare e convalidare agli occhi della donna quella incapacità che essa percepisce come propria inadeguatezza, come parte sbagliata di sé, o come sé "tutto sbagliato" nei confronti di funzioni e modelli di ruolo "sani e normali".   

E' tipico dell'intervento psichiatrico accogliere la denuncia della donna sulla propria condizione di malattia, e fornire una patente provvisoria di legittimità alla deroga attuata in quanto deroga attribuita alla malattia.   

Coerentemente con ciò esso impone alla donna, nel momento della cosi detta guarigione, di riprendere in pieno tutte quelle funzioni che aveva in precedenza interrotto. L'intervento psichiatrico come intervento normalizzatore di una pratica di ruolo, non coglie pertanto - ne può farlo, a meno di non rinunciare al mandato sociale su cui si fonda - il bisogno di cambiamento che si cela dietro la denuncia di malattia da parte della donna.   

Il lavoro fatto con le donne parte invece dal riconoscimento delle funzioni del ruolo femminile, della loro formazione e sviluppo come luoghi privilegiati di vissuti di sofferenza e di insostenibilità, e giunge a pro- porre alla donna la possibilità di quote di deroga al proprio ruolo, senza che ciò comporti percezione di malattia.   

Se si riparte dalla analisi del ruolo non considerandolo più come riferimento obbligato e costante della "normalità" dei comportamenti femminili, ciò permette di riconsiderare complessivamente il problema del disagio femminile, collegandolo direttamente con i luoghi concreti in cui si costituiscono sistematicamente per la donna le esperienze di oppressione, di chiusura degli spazi vitali, di colpevolizzazioni indotte dal contesto.

 

2.5.  Emerge da questo approccio critico, radicato nell'analisi dei vissuti di sofferenza riletti come l'insofferenza e insostenibilità", un ruolo femminile derivato dall'insieme di funzioni socialmente attribuite alle donne e, come tale, istituzionalizzazione e codifica di un progetto di esistenza parziale e unilaterale.   

Sono elementi parziali della vita di una donna, fra loro separati e incomunicanti, ma collegati direttamente alle sue specifiche condizioni di disagio, la sessualità e il lavoro: il lavoro produttivo e quello affettivo. Questi due momenti della realtà femminile - all'interno delle funzioni che il ruolo richiede alla donna perchè essa si riconosca e sia riconosciuta come tale - diventano momenti settoriali e separati corrispondenti ad immagini parzializzate e totalizzanti di donna: la donna casalinga, affettiva e riproduttiva; la donna emancipata, anafettiva e produttiva. Per la casalinga, agisce il modello della maternità omnicomprensiva: il ruolo della madre totale è assunto cioè come la norma di riferimento del proprio agire. Per la emancipata il modello normativo è costituito dalla parità sociale e individuale con il maschio.   

Il riferimento a questi due modelli entrambi illusori, in quanto l'uno legato ad una maternità astorica, l'altro ad una parità storica mai raggiunta, crea il terreno fertile per rendere incomprensibile alla donna la propria collocazione e quindi la propria sofferenza.    La contrapposizione tra queste due immagini parzializzate e reciprocamente escludenti di donna casalinga, o invece di donna autonoma con un proprio lavoro e un proprio inserimento nel sociale non mediato dalla struttura parentale, trova riscontro e rinforzo nei vissuti della donna "malata": vissuti di incompatibilità, di illegittimità dell'uno rispetto all'altro, di colpevolizzazioni (di avere il lavoro se si hanno figli; di provare piacere nell'esser madre se si persegue l'obiettivo di una propria emancipazione). Questo continuo lavorio sui temi della incompatibilità, legittimità, ecc. produce senso di incapacità, mancanza di progettualità, svuotamento, lotte continue con se stessa, debolezza verso l'esterno, assunzione di colpe, desiderio o necessità di fuga nella malattia come unica (purtroppo falsante, ed inducente più drammatica perdita di sé) possibilità di sottrarsi al senso di impotenza.   

Dall'analisi del proprio ruolo e dei modi di viverlo e di intenderlo emerge sempre la parcellizzazione di un'esistenza che si vorrebbe più complessiva. La casalinga vuole altro ma spesso non lo sa neanche denominare; e così il progetto di emancipazione risulta spesso anch'esso parziale perchè taglia fuori e fa apparire come illegittimi altri bisogni.   

La dipendenza della casalinga è allora spesso assoluta, cosi come l'autonomia della emancipata coincide con la non espressione di bisogni: è il mito della autosufficienza. Più spesso ancora la casalinga ritiene che un lavoro esterno basterebbe a farla stare bene, senza cambiare nulla dei rapporti familiari; l'emancipata pensa di essersi totalmente liberata dai carichi di oppressione della famiglia. In ogni caso la situazione che porta alla percezione di sé come persona malata é da un lato l'insostenibilità di una condizione: dall'altro il senso di immodificabilità che se ne ha. Si percepisce la insostenibilità, ma non si sa bene cosa è realmente insostenibile, e quindi neanche cosa fare per modificarlo.   

Leggere, dietro la malattia, la sofferenza della donna, attraverso l'analisi e la critica sia del ruolo domestico - familiare che di quello emancipatorio, costituisce la sostanza di un lavoro che - dall'interno dell'istituzione psichiatrica - si pone come ribaltamento e capovolgimento dei valori culturali e pratici dell'intervento psichiatrico. Strappare la sofferenza al terreno della malattia per ricondurla all'interno delle condizioni di vita della donna costituisce un processo inverso a quello della storia della formazione della psichiatria.                                  

 

 2.6             La sofferenza come l'abbiamo fin qui esaminata ha pertanto una caratteristica particolare: è in effetti più concretamente denominabile come "in-sofferenza" all'insieme di funzioni che il sociale propone e impone attraverso l'articolazione di modelli di ruolo. Una sofferenza che antagonizzi e dissolva il concetto di malattia si configura come insofferenza e desiderio di cambiamento. La malattia rappresenta al contrario l'impossibilità presunta del cambiamento, la risposta agìta dal sociale come impedimento al cambiamento attraverso la rappresentazione di modelli di ruolo rigidi, precodificati e presentati come immodificabili, in quanto innati e radicati nella natura umana.

 

2.7  In questa distinzione tra sofferenza e malattia può meglio precisarsi la specificità del nostro intervento.

Nella sofferenza femminile abbiamo inteso ritrovare il complesso delle condizioni di vita della donna con i suoi carichi e i suoi pesi, così come si sono originati nella dialettica di potere tra i due ruoli sociali (maschile e femminile); nella malattia abbiamo visto il decadere del riferimento alla interazione sociale tra i ruoli, ed in particolare la scomparsa del riferimento al ruolo femminile come luogo di formazione preferenziale di oppressioni e penalizzazioni.

L'obiettivo principale del nostro lavoro sta quindi nel chiarire con la donna utente quali siano i suoi interessi, e come questi siano contrapposti alla logica della "malattia".   

Il raggiungimento di un tale obiettivo si fonda su di una metodologia di lavoro il cui dato centrale è l'analisi dei comportamenti, dei gesti, dei pensieri, dei vissuti, dei desideri portati dalla donna al Servizio, e da lei stessa additati come incongruenti rispetto al proprio abituale tipo di vita. In questo lavoro si ripercorrono con la donna i "come e perchè" questi comportamenti siano stati man mano espulsi dal proprio contesto di vita o considerati ad esso disfunzionali. Si comincia così insieme un percorso a ritroso che dia invece legittimità ed asilo a questi gesti. Molto spesso è proprio il comportamento designato come "malato" che va stimolato e rafforzato togliendogli la patente di anomalia e di illiceità, e modificando un determinato modello o progetto di vita. Altre volte un determinato gesto o desiderio - anche se vissuto soggettivamente come disturbante - ha valore perchè interviene ad interrompere una pratica abituale di vita. L'esempio che qui può farsi è quello della presenza di un pensiero ossessivo che, oltre a poter significare la necessità di dare spazio a una pratica particolare, può anche significare l'impedimento all'esplicazione di altre pratiche quali l'accudimento familiare od altro.   

Questi gesti e comportamenti non vengono tra di loro legati insieme come sintomi di uno stato patologico, come avviene invece in psichiatria. Essi rimangono come segnali provenienti direttamente dalla storia della donna, dal suo quotidiano, dal suo contesto sociale, e come tali non assumono ai nostri occhi un valore di indizio della presenza di un qualche disturbo, ma vengono riletti con la donna stessa come bisogno di cambiamento di quella pratica di ruolo di cui costituiscono l'interruzione.   

Dare valore alla sofferenza della donna, riconducendola non più negli schemi estraniati e soggettivamente incontrollabili (in quanto solo controllabili da un tecnico esterno) della malattia, significa quindi raccogliere con la donna utente tutto ciò che ella percepisce (o altri prima hanno giudicato) in termini di incapacità, diversità, anomalia, e che la psichiatria definisce come indicatori obiettivi di patologia (sintomi di malattia), per rivederli alla luce di altre possibili regole che consentano loro di rientrare in un universo di legittimità e possibilità di esistenza.

2.8.   Nel processo di ammalamento la donna affida l'incomprensibilità dei suoi   gesti di rifiuto del ruolo (sessuale, affettivo, lavorativo) alla "misteriosità" della malattia e del sintomo. Ciò la libera apparentemente dalla responsabilità di essere attivamente implicata nel processo di rifiuto del ruolo o di aspetti di esso. Nello stesso tempo, questa apparente liberazione la condanna ad espropriarsi delle ragioni della sua sofferenza ed a delegare al tecnico un progetto che non può che essere di restaurazione dei modelli di ruolo rifiutati.   

Nel  rapporto con un Servizio che si ponga consapevolmente fuori dell'ottica psichiatrica, la donna può scoprire un nuovo significato del sintomo e della malattia.   

Può guardare ad essi come espressione dell'impossibilità a praticare un ruolo, altrove o in altri tempi, accettato o praticato. Il sintomo può costituire allora la rottura non più ricucibile con le proprie funzioni di ruolo e il segno della loro insostenibilità. Nel rifiuto del ruolo che la malattia pone alla donna sotto la specie di una propria incolpevole incapacità, la donna può invece cominciare ad individuare il proprio attivo bisogno di cambiamento. E' necessario però che la donna superi la paura dello snaturamento di sé che impedisce l'espressione di questo bisogno.   

Perchè ciò avvenga, occorre che la donna ripercorra le tappe della formazione del giudizio altrui e della percezione (propria) di malattia. Dietro questi troverà il senso di una incapacità falsamente attribuita a se stessa, ma che più concretamente è attribuibile alle richieste che provengono dal suo ruolo.   

Nell'analisi di queste incapacità la donna scopre che esse non riguardano la sfera di azione personale, non si riferiscono cioè a responsabilità individuali né a carichi di lavori propri; scopre che questa incapacità si genera dall'essere il suo spazio di vita personale invaso da compiti e responsabilità che si riferiscono ad altri.   

Da questa analisi la donna impara a separare da sé ed a porre come altrui tutto ciò che il suo ruolo le impone invece come non differenziato.   

Nella critica pratica di questo ruolo che vuole confuse le sue con le altrui responsabilità, la donna scopre i suoi effettivi carichi e le sue reali competenze, e su di essi misura in modo più realistico e con minor svantaggio personale le sue capacità.   

Questo lavoro di ridefinizione dei propri ambiti di responsabilità rende inutile il ricorso alla malattia come bisogno di sottrarsi alla richiesta impropria del ruolo: ridefinisce infatti in modo più vantaggioso  per la donna i compiti e le funzioni che le competono. E da questo lavoro di ridefinizione dei propri "confini" la donna può ripartire con un progetto di modifica della propria esistenza.

   


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3.  IL CONTENUTO ATTUALE DELLA RICERCA

 

3.1.  L'attuale sviluppo della ricerca sul tema del disagio psichico femminile ha comportato un approfondimento della metodologia di intervento del Servizio donne. Si sono così create le premesse per una migliore messa a punto di un bagaglio concettuale sulla malattia mentale e sulle sue implicazioni nella vita quotidiana.   

Requisito fondamentale per lo sviluppo della ricerca è stato il mantenimento del campo specifico di indagine ed osservazione aperto nel 1977 con la creazione di un Servizio pubblico specificamente rivolto alla tutela della salute mentale della donna.  

Il carattere di Servizio pubblico ha imposto di misurare continuamente l'intervento sulle esigenze di salute di una popolazione di utenti non selezionata. Ciò fa si che il metodo sia in grado di affrontare situazioni di disagio di ogni tipo. Dato che al Servizio donne afferiscono indistintamente le utenti che si rivolgono ai servizi della USL per motivi comunque attinenti alla salute mentale, ciò comporta naturalmente che siano in trattamento donne con grado diverso di sofferenza e di "patologia". Nonostante il nostro tipo di intervento non ricada tra quelli tradizionalmente medico-psichiatrici, esso si attua fruttuosamente anche nei confronti di persone che possono - con un termine tradizionale - essere considerate a pieno titolo affette da "patologia psichiatrica", anche di entità grave.    

Il Servizio donne si occupa infatti di una utenza composita per quanto riguarda:

a.       età: si va dalle giovani al di sopra dei 12-14 anni, alle anziane;

b.       livello socioeconomico: dal sottoproletariato alla piccola e media borghesia;

c.        livello culturale: dall'analfabeta alla universitaria; 

d.      tipo di occupazione: dalla casalinga, alla impiegata, all'insegnante,    all'operaia, alla disoccupata; 

e.       stato civile: dalle nubile alle coniugate, con o senza figli, alle separate o vedove;

f.        tipo di patologia: da quella definita nosograficamente come "nevrotica"  a quella "psicotica", nelle situazioni sia di stato che di crisi.

 

3.2.   Se ripartiamo dalle riflessioni ed acquisizioni esposte nel nostro primo contributo organico sull'argomento (Malattia mentale e ruolo della donna, quaderni di documentazione del CNR, 1982), è opportuno schematizzare di seguito le tappe secondo cui l'elaborazione ha proceduto. I contenuti di questo iter successivo costituiscono l'ossatura di ciò che sottostà alla definizione della metodologia e degli strumenti di intervento attuali. Qui se ne dà una breve esposizione che serve da introduzione alla analisi delle procedure di intervento adottate.

Presupposto dell'attuale lavoro è l'ipotesi del collegamento tra specifiche condizioni di vita della donna, che affondano le loro radici nella storia e nella formazione del ruolo femminile, e produzione di malattia mentale. L'ipotesi veniva verificata mediante l'analisi di un anno di attività del Servizio donne, che comprendeva la valutazione dell'intervento in 120 casi.   

L'intervento si fondava sull'analisi del sintomo così come espresso e vissuto dalla donna - senza intermediazioni di categorie cliniche predefinite - per poi giungere all'analisi del quotidiano ed alla storia personale come prodotti della storia di un ruolo insostenibile.   

La ricerca condotta sull'intervento del Servizio donne ha dato uno specifico significato alla relazione tra sintomo/malattia e vita quotidiana femminile. Questa relazione si attua, nella percezione della donna sofferente, come scollegamento del sintomo dalle concrete condizioni di vita. La percezione che la donna ha di un "ammalamento" fisico o psichico si contrappone alla percezione di una sofferenza motivata, radicata cioè in condizioni di vita non più tollerabili. In particolare, le analisi del sintomo e della vita quotidiana hanno messo in luce aspetti unitari nel modo in cui si compone e si struttura la sofferenza psichica.   

Si è individuato un significato del sintomo relativo al suo essere blocco o interruzione di una pratica di ruolo non  più tollerata dalla donna. Il sintomo cioè esprime da un lato il bisogno di cambiamento, dall'altro l'impossibilità di attuarlo. Per la donna infatti il sintomo diviene la forma necessitata che assume il bisogno di cambiamento rispetto alle abituali funzioni di ruolo, quando queste appaiono come non criticabili e sono vissute (o fatte vivere dal contesto) come legittime ed immodificabili. Per la donna allora il sintomo non è solo l'espressione di un malessere fisico o psichico, ma anche una incapacità ad essere come i modelli di ruolo - sanciti dal contesto - richiedono.   

Nell'analisi del quotidiano si è messo in luce l'intreccio oscuro tra competenze e responsabilità individuali e carichi di lavoro (affettivo e/o materiale) aggiuntivi, proposti dal contesto come dilatazione all'infinito di funzioni femminili "naturali". Si è individuato come da questo intreccio derivi alla donna il senso di una insostenibilità rispetto a carichi di lavoro e responsabilità aggiuntivi che il contesto tende a "scaricarle addosso" sotto forma di competenze legittime. Si è anche chiarito come la attribuzione di questi carichi di lavoro e di quote di responsabilità aggiuntive (in quanto al posto di altri, o per conto di terzi) determini nella donna il senso di una incapacità personale. Il meccanismo che accompagna questo tipo di attribuzione si fonda sulla pretesa di legittimità e inalienabilità di queste responsabilità in quanto derivanti da una funzione primigenia e naturale: quella materna. Questo meccanismo che attribuisce legittimità e carichi di lavoro debordanti dalla sfera delle responsabilità individuali e personali fa si che essi non vengano rifiutati né modificati. L'incapacità allora, non più attribuita a compiti indebiti e in- sostenibili, ricade sulla donna come fondamento pratico della percezione e del giudizio di malattia.   

La percezione di malattia lega in un rapporto ribaltato il quotidiano al sintomo: il sintomo con le sue due componenti di malessere fisico e di impotenza psicologica e sociale diviene l'elemento responsabile del mutato rapporto della persona con il suo contesto familiare e sociale.. In questa ottica della malattia la persona risulta incapace, mentre il complesso dei carichi di lavoro e delle competenze che gravano sulla persona mantiene il suo carattere di necessità e ineluttabilità.

 

3.3.   Nell'analisi della situazione di malessere e di sofferenza della donna è emerso il collegamento tra il sintomo, espressione di uno stato di malattia, ed il senso di una propria incapacità relativa all'interruzione o alla modifica dell'espletamento delle funzioni di ruolo. Da questo collegamento, che mette fuori campo - agli occhi della donna - responsabilità relative al contesto della vita, si produce l'idea e l'esperienza della malattia.    La percezione di malattia risulta essere il nocciolo duro all'interno di un progetto di trasformazione della sofferenza. Essa infatti si contrappone ad un intervento che ha come obiettivo il ribaltamento del rapporto tra sintomo e condizioni di vita, inteso come rapporto in cui il primo è la causa e il secondo l'effetto.   

Nella primitiva ipotesi del lavoro di ricerca del Servizio, più che sulla percezione di malattia, si era messo l'accento sulla relazione tra malattia e condizioni di ruolo: si erano cioè considerati sia il sintomo che la malattia come dati oggettivi dell'esistenza della persona, espressione di una reazione a condizioni di vita di per sé insostenibili (relativi cioè alla organizzazione propria del ruolo femminile). Già alla fine della prima fase del lavoro emergeva come tra malattia e condizioni di vita si inserisse una componente chiave del disagio femminile: la rappresentazione di una propria incapacità ed inadeguatezza rispetto ai modelli di ruolo. Questa rappresentazione gioca un ruolo fondamentale nel ribaltamento del punto di vista della donna, e nell'acquisizione di una percezione soggettiva di malattia. La percezione soggettiva di malattia è l'elemento che si costruisce nel rapporto col contesto e con le sue richieste di ruolo. La malattia mentale non può essere infatti una "cosa in sé", un elemento naturale, una realtà oggettuale coglibile ed indagabile al di là della soggettività della persona che si definisce od è definita come malata. Perfino nel campo della patologia somatica, dove le cose appaiono da questo punto di vista più semplici, la nozione di oggettività della malattia è correttamente sottoponibile a più di una critica metodologica. Nel campo del disturbo psichico, non si dà di fatto malattia senza percezione o giudizio esterno di malattia. Se l'esser malati passa attraverso la costruzione di una percezione soggettiva di malattia, è chiaro che il processo di ammalamento, e quello opposto di sua guarigione, divengono ancor più saldamente legati alla capacità che ha la persona sofferente di individuare sia il percorso di ingresso nella malattia, sia quello di uscita da essa. La persona con la sua storia personale diviene così, nello sviluppo attuale del nostro lavoro di ricerca, ancor più il centro della riflessione e dell'intervento del Servizio. Questa centralità assume cioè caratteristiche di necessità logica ed epistemologica.

Senza la ricostruzione del processo di percezione di malattia da parte del soggetto, risulta inattingibile sul piano conoscitivo la relazione tra sintomo e condizioni di vita.   

Questa relazione non può essere solo presupposta come ipotesi di lavoro, o supposta dal tecnico nel corso dell'intervento: supposizioni di questo tipo ancora una volta esterne ai processi logico-percettivi ed emozionali della persona sofferente, non sono sufficienti a produrre trasformazioni del punto di vista della persona, e quindi la trasformazione di uno stato di mal-essere in uno di ben-essere.    Nelle prime fasi della nostra ricerca, anche se non vi era una chiarezza concettuale di questi nessi, pur tuttavia la relazione utente-Servizio avveniva attraverso l'ascolto del punto di vista della persona sofferente, e la stimolazione al riconoscimento dei luoghi e dei modi della oppressione di ruolo (restringimento degli spazi di vita personali); ciò aveva come effetto un "mutamento di prospettiva dell'utente sulla propria situazione: dalla percezione di sé come persona ammalata, alla percezione di sé come persona che ha condizioni di vita oggettivamente difficili e a volte non più sostenibili".[4]  

Questo veniva  definito come il "cambiamento centrale", che poteva consentire poi tutti gli altri possibili cambiamenti.   

Nella ricerca  attuale, al centro dell'impegno di lavoro e di riflessione del Servizio  sono stati posti i temi della percezione di incapacità e della percezione di malattia, così come risultano dall'analisi della vita quotidiana e dalla storia  personale delle utenti. Questa ulteriore elaborazione del disagio psichico ha naturalmente comportato modifiche anche degli strumenti d'intervento. Vedremo ora in che modo, e in che relazione sono tra loro i nuovi strumenti.

 

3.4.              In determinate fasi della sua vita la donna, per come è socialmente congegnato il suo ruolo, sente l'impossibilità di far fronte a determinate richieste provenienti dal suo contesto di vita (familiare ed extra-familiare), e ciò può indurre nella donna inadempiente percezione di incapacità. Questa a sua volta mette in moto un percorso soggettivo di costruzione  della malattia come percezione di una propria disfunzionalità fisica o  psichica. Un metodo di intervento efficace è allora quello che riesce a  far ricostruire alla donna tutte le tappe del suo quotidiano (sia attuale  che storico) attraverso cui si è formata la percezione di una propria incapacità prima, e di una propria patologia poi.    

Un metodo di intervento che abbia questo obiettivo deve potersi valere  di due strumenti fondamentali:

-         uno strumento di analisi della vita quotidiana

-         uno strumento di analisi della percezione di malattia.

Insieme  questi due strumenti costituiscono una griglia appropriata per la lettura  della storia della donna, sia della storia del ruolo che di quella di malattia.   

Essi nel loro impianto formale e concettuale sono patrimonio tecnico  delle operatrici del Servizio, ma divengono strumenti concretamente operativi nel momento in cui la donna-utente li riempie con i suoi contenuti di  vita. In definitiva, questi strumenti acquistano un significato concreto  solo quando la donna se ne appropria usandoli nella ricostruzione soggettiva del suo specifico percorso di malattia e nella costruzione di una alternativa per l'uscita dalla malattia.   

L'analisi della vita quotidiana nasce dal presupposto che la malattia  mentale non essendo - come si è già detto - una "cosa in sé" è incarnata  in una determinata persona, ed una persona a sua volta si incarna in una  serie di esperienze culturali, sociali e sessuali. Anzi, sul piano delle  priorità , una persona è determinata prima dal suo essere sessuato e poi  dalle altre connotazioni sociali. Rappresentarsi il disagio di una persona  significa allora prendere contatto con i vari piani della sua realtà esistenziale ed esperienziale: prima di tutto il suo ruolo sessuale.   

La vita quotidiana della donna è stata da noi ulteriormente precisata  come luogo di formazione di una serie di carichi di lavoro, materiali ed  affettivi, responsabilità per conto di altri, secondo quelle che sono le  richieste e i desiderata del suo contesto di vita, in applicazione di modelli di ruolo accreditati e condivisi socialmente.   

Si sono individuate allora sei sfere o ambiti di applicazione del ruolo: il lavoro familiare, il lavoro extrafamiliare, l'attività di studio o  di avviamento professionale, i rapporti sociali/amicali, i rapporti sessuali, le attività di tempo libero. Queste sfere sono analizzate sia al  presente che al passato, tenendo conto delle quattro tappe fondamentali di  formazione del ruolo biologico-sociale della donna: l'infanzia, l'adolescenza/menarca, il matrimonio/maternità, la menopausa. In queste sfere che  vengono concretizzate da ogni donna con la presenza di figure specifiche  della propria storia di vita, ciò che deve risaltare è l'insieme di richieste che il contesto fa alla donna, l'insieme dei carichi che la donna si assume, e l'insieme delle cose che ella desidererebbe fare o che altri facessero. In ogni sfera inoltre si opera il confronto con le altre figure del contesto, mettendo in rilievo i carichi di lavoro che gli altri si assumono, ed i carichi di lavoro e responsabilità che il contesto richiede agli altri di assumere.   

Questa analisi cosi dettagliata serve a far luce sul rapporto tra la donna, come colei che incarna un determinato ruolo sociale, ed il suo contesto di vita. Questo rapporto è infatti fondamentale per il percorso di ammalamento.   

La donna e il suo contesto (in particolare quello familiare) hanno e sviluppano interessi oggettivamente contrapposti. Il processo di ammalamento è allora costituito da un percorso soggettivo guidato da interessi - economici, affettivi, culturali, ideologici - anch'essi oggettivamente contrapposti: da un lato vi è un determinato soggetto sociale ( nel nostro caso la donna) con i suoi specifici interessi di affermazione ed espansione delle proprie esigenze; dall'altro il contesto, rappresentato da figure concrete, che ha come proprio interesse la compressione  delle esigenze della donna, a vantaggio e sostegno delle proprie.   

Gli interessi del contesto sono rappresentati come generali ed oggettivi attraverso il richiamo a modelli di vita legittimi, in quanto condivisi dalla maggioranza del proprio gruppo sociale. Per converso, gli interessi della donna sono rappresentati come individuali, parziali, settoriali, "egoistici", in quanto deroganti dai modelli di ruolo socialmente validati, quindi con essi confliggenti, e come tali considerati illegittimi.   

Il modello fondamentale che sostiene il contesto nelle sue pretese di caricare di compiti la donna, è quello della maternità. Il compito considerato come principale nella maternità è la funzione di accudimento e di protezione. Questa funzione originariamente svolta nei confronti della prole viene allargata fino a comprendere una serie svariata e a volte illimitata di beneficiari: il partner, i genitori, gli amici, i colleghi o il datore di lavoro ecc. La funzione di accudimento si sostanzia di compiti materiali ed affettivi tali per cui tende potenzialmente a ridurre lo spazio di cura e protezione personale della donna. La donna, che moltiplica o che è costretta a moltiplicare i suoi compiti in funzione del benessere altrui, riduce proporzionalmente le possibilità di occuparsi del proprio benessere.

 

        3.5              Le richieste del contesto possono divenire in determinate circostanze insostenibili; ciò succede non in modo meccanicistico: vale a dire come conseguenza necessaria e inevitabile del rivestire un determinato ruolo sociale. L'insostenibilità, come fase propedeutica della malattia, è facilitata dal tipo di richieste e modelli sociali che riguardano il ruolo femminile, ma viene esperita da una donna solo quando si verificano, in conseguenza dell'appartenenza al suo ruolo, una serie di circostanze e situazioni specifiche.

Una situazione diviene allora insostenibile quando:

-         la donna ha visto man mano restringersi i suoi spazi di vita ed i suoi interessi;

-         ha cercato un aiuto dal contesto e questo le ha rinviato l'immagine di una persona incapace rispetto alla realizzazione di un modello considerato ottimale;

-         vi è stato il fallimento di un qualche progetto, ancora pensato come risolutore di una situazione di malessere personale, peraltro non ancora percepita come patologica;

-         il fallimento di questo progetto chiude le risorse progettuali della persona messe in campo nella adolescenza.   

Dalla situazione insostenibile la donna giunge alla situazione di ammalamento. Gli elementi di passaggio dall'una all'altra situazione sono costituiti da: assunzione del punto di vista del contesto sulla legittimità dei propri compiti e responsabilità di ruolo, assunzione del progetto di benessere patrocinato e raccomandato dal contesto. Conseguenza di questo mutamento di prospettiva, che realizza di fatto una convergenza con il punto di vista del contesto sono: la noia, il disinteresse, la caduta di slancio e di "sentimento", la stanchezza, il ritiro di investimenti affettivi dalle cose che si fanno ormai solo nella prospettiva del "per altri". Tutto questo modo di vivere e sentire il quotidiano è del tutto diverso dal precedente: prima vi era si la stanchezza, l'insoddisfazione, ma vi era ancora una possibilità di scontro con il contesto, vi era un qualche progetto personale rivolto all'affermazione dei propri interessi, non vi era condivisione della legittimità di certe pretese e richieste.

Ora quando la donna, fallito l'ultimo progetto personale, concorda con il contesto senza portare avanti un qualsiasi tipo di scontro, stanchezza e insoddisfazione non trovano più una spiegazione nella contrapposizione di interessi con il contesto. In più si aggiunge una "caduta del sentire prece- dente", una demotivazione a qualsiasi cosa, che pone alla donna il problema   dell'esistenza di una qualche propria patologia psichica.

Ora le accuse che il contesto ha mosso in precedenza, durante gli scontri, sembrano acquistare credibilità- "non sei capace di essere una buona madre, una brava moglie, una donna emancipata che non trascura i figli ecc.". La donna che in questa fase ha capitolato, vuole fare le cose su cui il contesto consente; vede nella stanchezza, nella mancanza di gioia, nella noia una prova di quanto il contesto per anni ha affermato. "Sei tu che sei incapace". La donna cosi incomincia a vedersi diversa dalle altre donne, guarda indietro e si vede diversa da come era prima, avendo dimenticato che prima però metteva interesse, attenzione, sentimento nelle cose che faceva, perchè ancora queste cose rappresentavano anche una parte di sé e del suo progetto di realizzazione. Su questo Mutamento di prospettiva e di condizione si costruisce la percezione di un sé malato. La donna guarda alla sua stanchezza fisica e psichica non più come effetto di uno scontro che è cessato, di una perdita che si è subita, ma come ad una stanchezza inspiegabile, immotivata.

I compiti e le responsabilità di ruolo, la cui legittimità si approva, non possono più essere percepiti come gravosi, impropri; si ritiene anzi che essi costituiscano la normalità per ciascuna donna. Allora questa stanchezza viene attribuita a malattia, e ciò costituisce il primo passo per la costruzione di una sintomatologia psichica. 

Dopo questo percorso soggettivo inizia l'altro percorso: quello della cronicizzazione di questa percezione ad opera dello specifico giudizio psichiatrico. In questo percorso, che inizia dalla adolescenza con la messa in opera di un progetto di ruolo - condiviso o meno -, parte fondamentale hanno i modelli di ruolo. Essi dettano legge su come una donna deve essere, su quello che deve 'o non deve fare, e su come lo deve fare. Questi modelli danno significato all'operatività quotidiana della donna. Il fare determinate attività ha senso per il contesta solo se si inquadra in determinati modelli accettati, non ha senso se non corrisponde a un determinato modello prescelto. I significati di giustezza, capacità, legittimità che il contesto dà a determinate attività (atteggiamenti, comportamenti, ecc.) della donna a scapito di altre, scavano un solco nel quale vanno a cadere e a perdersi i significati positivi che la donna dava a determinati fatti, azioni ecc. sulla base di un criterio di autonoma soddisfazione.   

Ricollegandoci quindi a quella che è l'operatività del Servizio, l'intervento terapeutico consiste nel restituire un significato a questi fatti, azioni, comportamenti dismessi, nel corso della storia della donna, a vantaggio di quelli sostenuti dal contesto. Il percorso di ricostruzione, alla ricerca dei propri interessi accantonati, va a ritroso: dalla storia della cronicizzazione, alla formazione della percezione soggettiva di malattia, all'insostenibilità (scontri con il contesto prima dell'ammalamento), ad altre tappe di scontro, fino ai primi scontri adolescenziali e alla prima formulazione del proprio progetto di vita.

 


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4.  NOTE DI METODOLOGIA GENERALE SUGLI STRUMENTI DI INTERVENTO

 

4. l.             Vogliamo qui definire le modalità d'uso degli strumenti che presentiamo. Diamo anzitutto una lettura generale di queste modalità che valgono complessivamente per tutti gli strumenti, salvo poi riprendere il discorso nella trattazione e presentazione di ciascuno di essi.    Questi strumenti nascono da una situazione di rapporto con l'utenza fem- minile del Servizio che inizialmente era poco strutturata. Poi, man mano le conoscenze accumulate in circa dieci anni di lavoro hanno portato ad una elaborazione sempre più dettagliata dei nessi tra condizioni di vita e malattia; di pari passo si sono cosi ampliati gli strumenti di intervento.   

E' anzitutto necessario che l'uso degli strumenti non risulti soffocante o mortale per il rapporto terapeutico. Per evitare ciò occorre rispetta- re due criteri fondamentali: quello dell'ascolto del disagio da parte dell'operatore; e quello dell'individuazione per ciascuna donna dello specifico percorso che ha condotto alla malattia.   

Gli strumenti servono allora all'operatore per individuare tappe importanti e obbligate di un percorso, che comunque si riempiono di contenuti diversi a seconda delle varie persone. Gli strumenti forniscono solo una griglia di lettura del disagio: le sue caratteristiche però non possono mai essere predefinite prima dell'incontro con la singola persona sofferente e prima dell'ascolto della sua storia. Ad esempio, l'operatore sa che la malattia è senz'altro stata preceduta da una fase di scontro con il contesto, e che in quella fase i rapporti con il contesto erano capovolti o diversi da quelli che vengono presentati dalla persona nel momento in cui esprime il suo disagio. Egli può solo servirsi di questa conoscenza lavorando attivamente perchè la persona renda esplicita questa fase di conflitto e la concretizzi rispetto ai suoi contenuti e alle sue direzioni. Sapere poi che il contesto ha avanzato delle richieste oppressive alla donna, serve solo ad indirizzare la ricerca in questa direzione; e questa conoscenza dell'operatore ha valore solo se poi la donna riconosce queste richieste e comincia a valutarle come oppressive ed ingiuste, diversamente da prima. E cosi ancora, sapere che per stare meglio la donna deve poter modificare il suo progetto e modello di vita, non significa che l'operatore debba o possa confezionare questo modello o questo progetto sulla base di quelle che possono essere le proprie convinzioni o quelle del suo gruppo sociale. Ad esempio, l'operatore può pensare che il lavoro sia terapeutico per una casalinga, oppure che lo sia non fare figli, o al contrario farne di più; tutto questo non ha alcun valore se la donna non ricava da se stessa e dall'analisi della sua vita gli elementi che configurano gli interessi ed i desideri personali necessari per rifondare un proprio progetto di vita.   

L'operatore non deve farsi coinvolgere nella sopravvalutazione di quegli eventi di vita considerati unanimemente onerosi, destrutturanti, traumatici, ecc. Essi gli saranno quasi sempre prospettati dalla donna stessa, nel tentativo di spiegare la genesi del suo star male. La ricerca di un evento "traumatico" (di carattere fisico, affettivo o sociale) è pressoché costante nella persona sofferente: da un lato serve a dare spiegazione ad un qualcosa che altrimenti risulta inspiegabile; dall'altro è in linea con l'opinione corrente, avallata da ipiù diversi psicologismi. In realtà sappiamo ormai dalla lunga esperienza di lavoro che non c'è alcun bisogno di eventi traumatici: è sufficiente la vita "normale" di una donna a provocare malessere psichico. Ci sono attualmente numerose ricerche sui life events, che danno rilevanza alla connessione tra determinati eventi e incidenza di malattia mentale. Gli strumenti che noi presentiamo non danno rilievo a singoli eventi di vita: l'esperienza condotta ha infatti mostrato come vi possano essere letture le più differenziate dei singoli eventi, o come questi eventi in determinati periodi di vita di una persona non producano percezione di malattia ed in altri invece la producano.   

L'occhio dell'operatore deve essere puntato solo su un processo: il percorso di vita della persona con tutti gli elementi di modifica che in esso sono compresi. Gli strumenti servono quindi a delineare questo percorso di vita con una particolare attenzione a quegli elementi - che non sono solo eventi particolari ma rapporti tra la persona ed il suo contesto, da cui può scaturire il malessere e poi la percezione di malattia.   

Suddivideremo gli strumenti in due tipi: statici e dinamici.

Gli strumenti statici sono: la cartella clinica e l'intervista.

Gli strumenti dinamici sono- il protocollo per la rilevazione della vita quotidiana e della storia personale, e quello per la rilevazione della percezione di malattia.   

La cartella clinica serve a rendere immediatamente visibili le tappe del rapporto terapeutico. Essa inoltre immagazzina una serie di dati che possono essere di seguito analizzati, e che sono indispensabili per valutare alcune caratteristiche dell'utenza e del suo percorso di ammalamento. La cartella clinica inoltre dà la possibilità di sintetizzare e confrontare l'operatività del Servizio con altri Servizi, di fornire statistiche, di fare collegamenti tra alcuni dati ed altri. Un esempio dell'utilità della cartella clinica è dato dal fatto che essa permette di analizzare alcuni fenomeni su più larga scala pur mantenendo, nella concezione del suo impianto, il riferimento stretto al modello di intervento del Servizio; essa evita cosi di cadere in banalizzazioni o generalizzazioni che perdono il rapporto con le storie specifiche delle utenti.   

L'intervista all'utente focalizza l'ultima tappa dell'intervento del Servizio: quella del superamento della percezione di malattia. Essa raccoglie, alla fine del percorso terapeutico, il punto di vista dell'utente sul come e perchè essa si è ammalata, e sul come e perchè ha superato la malattia.

Ambedue questi strumenti danno un'immagine dell'intervento solo per quanto riguarda i momenti di ingresso ed uscita della paziente dal Servizio..   

Gli altri due strumenti: protocollo di rilevazione della vita quotidiana e protocollo della percezione di malattia, accompagnano invece l'operatore in ogni momento del suo intervento, delineando il processo complessivo con cui è avvenuta la costruzione della malattia e quello con cui si attua invece la sua decodifica e il suo superamento.   

Gli strumenti non sono un questionario da somministrare all'utente. La cosa ottimale è che essi diventino habitus mentale dell'operatore nel suo approccio al problema dell'utente. Questo significa che l'operatore deve poterli maneggiare con scioltezza, senza sovrapporli all'esperienza dell'utente e alle sue modalità. espressive. L'operatore conosce il percorso da fare, e di volta in volta ordina i contenuti forniti dall'utente secondo questo percorso.   

Il percorso d'altra parte non può essere fatto in una sola volta. Spesso, più e più volte la persona affronterà i problemi connessi con un periodo della sua vita senza tirare fuori gli elementi essenziali o sufficienti alla comprensione del come e del perché si è poi determinata la situazione di malattia. Questo non deve creare all'operatore ansia, o atteggiamenti di pressione sull'utente: i contenuti implicati nell'ammalamento verranno fuori man mano che, con l'analisi concreta dei rapporti e delle azioni quotidiane, si preciseranno i contorni dell'esperienza di vita della persona.   

Ma questi dati, oltre ad emergere, devono essere riconosciuti dalla persona come responsabili del suo malessere: è questa un'altra tappa importante del lavoro dell'operatore che deve essere consapevole del fatto che il percorso, che la persona sofferente va a tracciare con il suo aiuto, non è solo un percorso conoscitivo ma anche emozionale, affettivo e sociale.    I due strumenti vanno maneggiati insieme: l'uno rappresenta la storia della persona, la sua storia con tutti i carichi e le responsabilità collegate al ruolo sociale; l'altra, la storia della sua incapacità e malattia che si innalza sulla storia di ruolo.

 

4.2.  Cosa succede quando ci si trova di fronte una persona che non parla, o appare confusa, o parla di cose apparentemente inesistenti? Si possono applicare questi strumenti? Sono validi?   

Avendo chiarito che gli strumenti non sono una gabbia che dobbiamo mettere intorno ad una persona, e non sono una serie di domande che rivolgiamo all'utente sulla sua malattia o sulla sua storia, va detto subito che si possono affrontare anche situazioni di questo tipo che sembrano inizialmente inavvicinabili e impenetrabili ad ogni rapporto.    Prima di tutto, la persona rallentata o confusa (come ciascun'altra) non è vista una sola volta, ma più volte e in tempi anche molto ravvicinati. Nel rapporto di conoscenza che l'operatore tenderà a stabilire negli incontri iniziali si scioglieranno molte delle incomprensibilità e dei si- lenzi iniziali. In secondo luogo, qualunque sia il livello del malessere, l'operatore tenderà ad orientare il discorso sulla vita quotidiana (attività, fatti, rapporti) partendo dalle cose più elementari e semplici. Infatti, proprio in questi casi, il quotidiano, la vita concreta sembrano essere stati spazzati via dalla malattia: la persona non riesce a parlare di sé, di quello che è successo o di quello che ha fatto il giorno prima. Proprio allora è necessario che l'operatore tenga ferma la sua attenzione al quotidiano, e che riesca a portare l'utente sul terreno del concreto. Riuscire a parlare in modo concreto e con riferimenti precisi al quotidiano diventa il primo obiettivo importante per l'operatore quando il malessere di una persona si configura come estraniamento totale dalla vita di ogni giorno. Fanno parte di questa estraniazione: la confusione, l'incoerenza, l'eccitamento, l'inibizione psicomotoria e verbomotoria.   

Vogliamo qui accennare ad alcuni casi esemplificativi di come questi strumenti complessi possano essere fruttuosamente usati anche in situazioni in cui la persona dimostra un rapporto difficile o impossibile con il mondo.   

 

Il caso di Maria

Maria è una ragazza di 15 anni; da   alcuni mesi non parla, si è chiusa in se stessa, si dondola, e l'unica espressione verbale è un indistinto verso che pare un mugolio o una nenia senza parole.   

Questa è la situazione in cui la prima    volta l'operatrice affronta il rapporto con lei. Dalle sorelle, anch'esse rivoltesi al Servizio per motivi propri, l'operatrice non apprende alcun elemento importante sulla storia di Maria. Prima di venire al Servizio, Maria è stata visitata presso lo specialista che ha dato una terapia a base di neurolettici e l'ha inviata al Servizio di zona (il nostro). Di Maria l'operatrice non sa assolutamente nulla; sa solo che ha fatto gli studi fino alla terza media, e conosce attraverso i problemi delle sorelle più grandi, il panorama complessivo dei problemi familiari. Si tratta di una famiglia dove vige una stretta autorità paterna, dove la madre conta poco, e dove le sorelle sono costrette ad uscire tutte insieme da casa, per timori vari dei genitori ed in particolare del padre.   

Ma tutto ciò non serve per parlare con Maria. Primo atto dell'operatrice è quello di valutare nel Servizio la opportunità  della prescrizione farmacologica perché ovviamente può ancor di più ingabbiare la ragazza e le sue capacità espressive. Dettagliamo qui i primi tre o quattro colloqui che hanno dato l'avvio allo sblocco della situazione.   

Nei primi due colloqui Maria continua a dondolarsi e non parla, non risponde ad alcuna delle domande che l'operatrice pone e che riguardano lo inizio di quella situazione in cui Maria è venuta a trovarsi. Non risponde neanche alle domande che riguardano la sua età, la composizione del nucleo, ecc. A questo punto l'operatrice decide di parlare anche da sola,  presupponendo comunque un ascolto di Maria, che intanto viene al Servizio  (anche se accompagnata dalle sorelle), sta seduta tranquilla di fronte  all'operatrice e non mostra segni di fastidio per la situazione.     L'operatrice parla allora nella dimensione del desiderio: del desiderio di cibo, di mangiare fuori casa, di andare al ristorante e di scegliere tutto quello che  si vuole; e poi del desiderio di viaggiare, di conoscere altri posti, posti lontani, ma anche vicini, raggiungibili facilmente da Napoli.    

Nei primi due colloqui quindi, essendo impossibile esplorare la vita  quotidiana, e la percezione di malattia, l'operatrice ha dato voce ad alcuni possibili desideri collegati con l'esigenza di autonomia e distanza  dalla famiglia. Il viaggio in particolare interpreta molto bene le esigenze di liberazione della donna dalle varie oppressioni familiari.   

Nei colloqui seguenti Maria comincia a parlare; si può iniziare così l'esplorazione della vita quotidiana cominciando dall'analisi dei rapporti familiari. Sollecitata dall'operatrice, Maria raccoglie le notizie sui suoi familiari: età, occupazioni dei numerosi fratelli. A poco a poco Maria riprende contatto con la sua realtà e abbandona l'atteggiamento di silenzio. Successivamente Maria costituirà uno stimolo per le altre sorelle  ad uscire di casa, a muoversi di più, e ad intraprendere un qualche progetto personale anche di tipo  professionale.   

 

Il caso di Giusy

Giusy è una ragazza di 18 anni che ha interrotto la scuola magistrale  dopo una bocciatura, che per un anno è stata chiusa in casa senza che i familiari vedessero in questo nulla di strano e preoccupante, e che poi per  sei mesi è stata portata da vari psichiatri perché stava male.    

Per i familiari, il malessere di Giusy consisteva essenzialmente nel rifiuto di svolgere in casa le funzioni di aiuto domestico ad una madre che  lavora e che ha un marito cieco; per Giusy il suo malessere era la percezione di stare per morire a causa di un disturbo fisico identificato dalla  ragazza come una specie di "palla nello stomaco e/o nella pancia".     Giusy ha girato gli ospedali di Napoli portata in una situazione di  pronto soccorso perché accusava dolori inauditi. L'ultima volta che si è  trovata al Pronto soccorso dell'ospedale le hanno detto che si trattava di  un disturbo nervoso e che era necessario rivolgersi ad un Servizio di salute mentale.    

Quando giunge la prima volta al Servizio accompagnata dalla madre,  Giusy parla del suo disturbo in termini fisici; l'operatrice non scavalca  questo tipo di percezione e affronta il problema con una consulenza internistica. Quando la consulenza è attuata e gli esami specialistici prescritti, Giusy dimostra di non avere alcuna intenzione di fare questi esami e  di giungere cosi ad una qualche certezza nella definizione del suo malessere. Pretende però ancora di parlare in modo magico della sua "palla", affermando che l'operatrice non vuole credere alle sue sensazioni e certezze  soggettive. L'operatrice assume un atteggiamento deciso: o Giusy fa gli accertamenti prescritti o non si parla più della "palla". Ecco allora che  Giusy introduce con forza una altro elemento nel suo disagio, che era rimasto in secondo piano rispetto al disturbo fisico. Nel suo caso, per  altro molto grave, si tratta - secondo la ragazza - di un arresto dello  sviluppo psicologico e fisico. Questo blocco - sempre secondo quanto  afferma - comporta l'impossibilità ad entrare nel mondo degli adulti rispetto al quale Giusy si percepisce diversa, un vero e proprio mostro. Il  suo aspetto fisico tradisce questa diversità e mostruosità, che per anni  ha cercato di nascondere ma che ora gli altri riconoscono, e non le è più  'data la possibilità di nascondersi e camuffarsi. Tutto ciò è cominciato a  14 anni. Questa realtà esisteva anche prima, solo che non ne aveva coscienza.    

Quando Giusy parla di queste interpretazioni del suo malessere non accenna mai ad una situazione concreta, a fatti precisi. Le figure di cui  parla, compresa se stessa, sono ombre incorporee; non si riesce ad ottenere all'interno del suo sistema di spiegazione della malattia un solo elemento della vita quotidiana attuale o precedente.    

Poi Giusy, durante il rapporto con il suo Servizio, come a volte accade, è portata da altri specialisti privati, ed acquisisce così informazioni tecnicistiche sul suo malessere che utilizza immediatamente per ampliare il suo discorso sui sintomi e sulla gravità della sua malattia. In questo periodo va anche a Torino presso un fratello e qui, dopo una crisi di  tipo somatico, è portata ad un Servizio di salute mentale. Consigliano a  lei ed ai familiari un immediato ricovero, e provvisoriamente prescrivono  una terapia a base di neurolettici.     Le difficoltà di rapporto con il Servizio aumentano nel momento in cui  Giusy trova gli altri tecnici che le confermano la gravità della sua malattia. Si protrae cosi più a lungo la difficoltà ad orientare Giusy sul racconto della sua storia e della vita quotidiana: tutto ciò le sembra infatti poco congruente con la sua malattia.    

D'altra parte, quanto più aumentava la competenza tecnica di Giusy sulla definizione e classificazione dei suoi disturbi, tanto più aumentava la  produzione sintomatologica. Quando invece si riusciva a farla parlare di  qualcosa che riguardava la sua storia, anche episodi duri e difficili, la  ragazza appariva serena e smetteva di tremare, urlare ed angosciarsi.    

L'atteggiamento dell'operatrice è stato quello di ridurre, imponendolo  progressivamente, il discorso sui sintomi e sulla loro definizione, e di  ampliare man mano il discorso su alcuni contenuti della vita quotidiana e  della storia personale. Gradualmente l'esigenza di parlare di sé solo attraverso i sintomi è diminuita e la ragazza man mano diveniva capace di  parlare di sé attraverso l'espressione della sua vita di ogni giorno.     Parlare delle cose banali, delle situazioni concrete dì ogni giorno,  delle vicende scolastiche, dei rapporti amicali, dei rapporti difficili con la famiglia, permette alla ragazza di rientrare nella sua vita e di abbandonare una produzione fantastica nella quale la rappresentazione di sé come persona l'eccezionale ma mostruosa" la spaventava e la faceva stare molto male.  

 L'approccio non è diverso nelle situazioni di crisi confusionali di tipo depressivo.

 

Il caso di Carmela  

Carmela ha 28 anni, due figli piccoli. Viene al Servizio saltuariamente, in alcune situazioni di crisi depressiva. L'ultima volta viene in una situazione di confusione. L'operatrice non la vede da alcuni anni, è una donna che vive fuori Napoli, in un paese vicino. Carmela parla in modo confuso e incomprensibile e sembra sotto l'effetto di una ubriacatura: non si regge in piedi., cammina ondeggiando e barcollando. L'operatrice non consiglia alcun intervento farmacologico in attesa che si possa capire meglio la situazione. Comincia così ad ascoltare quella che si presenta come "insalata" di parole facendo comunque attenzione a tutti i contenuti del discorso. Dalle parole che dice sembra sia sotto l'effetto di una droga; parla infatti di persone drogate, di una festa in casa. Si raccolgono questi contenuti e si rinvia un ulteriore chiarimento a due giorni dopo. Si rassicurano i familiari circa le condizioni fisiche della donna, che intanto era stata visitata da un punto di vista medico-.generale; e si consiglia solo una terapia farmacologica di tipo sedativo in caso di necessità.

Quando Carmela ritorna, la situazione di confusione è passata; si riprendono i contenuti espressi la volta precedente e si sistemano le frasi spezzate in un tessuto organico di fatti, di vissuti, di rapporti con il contesto.   

Le frasi espresse nella situazione confusionale erano frammenti di una realtà che andava ricostruita. I dati veritieri del racconto si riferivano alla situazione del marito, da qualche tempo dedito all'uso di sostanze stupefacenti, che organizzava feste in casa e furti ai danni della moglie.   

 

Il caso di Maria Rosaria

Maria Rosaria è una donna di trent'anni, che giunge al Servizio in stato di rallentamento psico-motorio. Ha un atteggiamento di cupezza e depressione, non parla e sollecitata dice solo alcune parole: "E' colpa mia, è colpa mia".   

Anche in questo caso di silenzio della donna, l'operatrice si assume la responsabilità di dare un contenuto a queste poche parole espresse. L'operatrice parla di questa colpa; quale potrà mai essere la colpa di Maria Rosaria? La colpa che in genere le donne si assumono di non essere buone madri e brave mogli. E cosi l'operatrice parla dei contenuti possibili di questa presunta colpa fatta di carichi e di lavoro per altri, che gli altri non apprezzano né riconoscono.

  Così per Maria Rosaria diviene possibile, le volte successive, parlare di sé e della propria vita, una volta che si è dato un nome al problema per lei più scottante.

In tutti questi casi il lavoro iniziale dell'operatrice è stato quello di rendere possibile l'accesso alla vita quotidiana delle persone. Questo lavoro si rivela di per sé terapeutico perché costituisce la prima incrinatura del sistema e dell'ottica della malattia.

 

4.3.  L'uso degli strumenti d'intervento in situazioni di crisi richiama immediatamente il problema della compatibilità o meno di questi strumenti con il trattamento farmacologico.   

Già dai casi brevemente analizzati emerge come il trattamento farmacologico non venga usato o venga limitato al massimo. Il ricorso a preparati ansiolitici avviene solo quando la persona lo richiede con insistenza, e quando nel rapporto iniziale la persona non possiede ancora degli strumenti alternativi per la gestione del malessere. Il trattamento farmacologico è a volte mantenuto, con una strategia di scalaggio, quando la persona ne ha fatto lungamente uso.   

In genere l'intervento farmacologico  toglie all'operatore la possibilità di lavorare sui contenuti di sofferenze che si trovano dietro la malattia. Fornisce cioè, quando produce una riduzione dei sintomi, la falsa percezione di aver risolto il problema. In questo modo la persona, e nel caso specifico la donna, non investe energie nel lavoro di ricostruzione del suo percorso storico prima e dopo l'evento malattia. Succede poi, nel caso di farmaci incisivi, neurolettici e neurolettici depot, che la persona venga espropriata di una serie di capacità psico-fisiche, il che rende spesso impraticabile la ristoricizzazione del disagio.    Molte volte ci siamo trovate di fronte a donne trattate lungamente con farmaci di questo tipo, le quali avevano perso la possibilità di espressione delle proprie emozioni e sentimenti. Donne che avevano un aspetto fisico immobile e statico, un pensiero lento, una memoria ridotta.   

L'applicazione dei nostri strumenti richiede al contrario che la persona abbia disponibili tutte le sue capacità di espressione dei sentimenti, di memoria, di fluidità del pensiero; già di per sé la malattia rappresenta un blocco e un oscuramento di alcune capacità (come quella del ricordare e del mettere a fuoco le responsabilità del contesto), per cui non appare proprio opportuno aggiungere anche il peso di farmaci bloccanti.   

In generale i farmaci assecondano il percorso intrapreso dalla persona nella malattia e, non consentendo alcun cambiamento di rotta, tendono a cronicizzarla di fatto.  

Da tutto ciò discende che l'atteggiamento metodologico del Servizio consiste nel non sovrapporre all'intervento, che corre generalmente lungo le linee già enunciate, l'uso sistematico e protratto di psicofarmaci, ed in particolare di quelli più tipicamente incisivi: timolettici e neurolettici delle varie specie, e in special modo le preparazioni long-acting.

 

4.4.  Affrontiamo ora il problema dell'atteggiamento complessivo dell'operatore nell'uso degli strumenti d'intervento.   

Si è già detto che gli strumenti non devono costituire una gabbia per l'intervento, ma essenzialmente una guida orientativa per l'operatore.   

Per l'uso di ciascun strumento non vi è alcun ordine rigido: la cartella clinica serve generalmente al primo approccio per fissare i dati iniziali dell'utente, ed inoltre per annotare tutte le tappe dell'intervento. L'intervista si svolge alla fine dell'intervento. Il protocollo di rilevazione del quotidiano e della percezione di malattia vanno usati lungo tutto il percorso dell'intervento nel contesto del rapporto con l'utente.   

Durante questo percorso, le tappe che ciascun strumento descrive possono non essere rispettate nel loro ordine di presentazione: l'utente generalmente inizia il rapporto con il Servizio parlando della situazione attuale può poi descrivere altre tappe della propria vita che vede come intrecciate e collegate. Sovrapponendo nel discorso più momenti della propria vita può sconvolgere l'ordine degli strumenti: ciò non è essenziale per l'operatore anche se l'utente salta da un periodo all'altro della sua vita. Ciò che è importante è che ogni fatto, ogni tappa della vita della persona trovi un collegamento utile e fruttuoso, e che alla fine dell'intervento si profili chiaramente la logica dei rapporti quotidiani che ha indotto in quella specifica persona la percezione di malattia.   

L'atteggiamento soggettivo che l'operatore deve tenere nel rapporto con l'utente e nel momento in cui maneggia gli strumenti, deve poter presentare una serie di gradazioni: assertivo, stimolativo, promotivo, supportivo, passivo, dismissivo.   

Cercheremo ora di dare conto delle situazioni tipiche in cui vanno assunti i vari atteggiamenti; spetta poi ad ogni operatore che si confronta con il caso specifico adottarli in modo proficuo, non meccanicistico e scevro da ogni tipo di forzatura.   

L'atteggiamento assertivo viene in genere adottato nelle situazioni di crisi, nel rapporto con le adolescenti, o comunque nel rapporto con qualsiasi persona, quando il punto di vista dell'utente o della famiglia si orienta a valutare come necessario un intervento di tipo medico tradizionale (farmaci, ricovero, controllo).   

Nella situazione di crisi, come si è visto, l'operatrice dà voce ai contenuti di sofferenza e/o di desiderio della donna, presentandoli in modo assertivo/propositivo. Con le adolescenti spesso è necessario assumere un atteggiamento assertivo: l'adolescenza è infatti una particolare età in cui la crisi è sempre presente, al di là della malattia stessa. L'adolescente necessita di una funzione di supporto del proprio punto di vista che è inerente all'età oltre che alla condizione di disagio.   

Ed infine una posizione assertiva dell'operatore è necessaria quando l'utente oscilla sulle possibili soluzioni del suo problema, richiedendo quindi da parte dell'operatore una esplicitazione del suo punto di vista  su cosa possa essere nocivo e cosa no. E' opportuno che l'operatore avanzi la sua opinione in proposito e metta in guardia da interventi che rischiano di produrre cronicizzazione.    

L'atteggiamento stimolativo è presente in ogni situazione di rapporto  con l'utente in cui l'operatore stimoli il racconto o il ricordo di situazioni, fatti, rapporti, punti di vista, scontri.    

L'atteggiamento promotivo riguarda le situazioni in cui l'operatore promuove l'iniziativa dell'utente rispetto a progetti e desideri personali,  o comunque a realizzazioni del suo punto di vista.

L'atteggiamento supportivo consiste nel fornire il supporto dell'operatore, la sua solidarietà a decisioni, iniziative, progetti dell'utente.  

L'atteggiamento passivo si riferisce a situazioni in cui l'operatore valuta necessario non intervenire in alcuno dei modi precedentemente descritti. Ciò accade quando l'utente tenta di delegare l'operatore ad agire per  conto proprio. L'atteggiamento passivo dell'operatore tende allora a dare  spazio ad una iniziativa dell'utente, trasformandosi eventualmente in una  azione di supporto, collaterale all'agire dell'utente.

L'atteggiamento  passivo può essere inoltre assunto nei casi in cui l'utente sente ed esprime la necessità di girare intorno ad un problema senza tuttavia voler prendere decisioni ed iniziative. La posizione passiva è allora una posizione  di tipo attendista da parte dell'operatore: questi attende che l'utente  precisi meglio il suo punto di vista, o lo rafforzi quando lo ha già chiaro.   

L'atteggiamento dismissivo riguarda la necessità dell'operatore di ritrarsi là dove è necessario fare spazio completamente all'iniziativa dello utente. Ciò accade sia durante che alla fine dell'intervento, quando l'utente sta elaborando o ha elaborato il suo punto di vista nei confronti di aspetti, generali o parziali, della sua vita.

L'atteggiamento dismissivo è presente in ogni situazione in cui l'operatore ritira il suo intervento quando questo è richiesto dall'utente, mostrando cosi come le scelte operate dall'utente non abbiano bisogno di consenso e di approvazione dallo esterno.   

Tra gli atteggiamenti analizzati mancano  e sono per altro accurata- mente da evitare - quelli interpretativi e quelli di controllo.  

Ambedue questi atteggiamenti, che fanno parte di universi distinti (psicologico e sociologico), hanno come carattere peculiare il farsi carico (prevedere, provvedere) del    "benessere" altrui. Ciascuno dei due atteggiamenti fa riferimento ad un'idea di benessere individuale e/o collettivo, ciascuno dei due prefigura e organizza i bisogni individuali e della collettività secondo regole e archetipi estrinseci alla persona la cui storia è portatrice di sofferenza.    

  Analizzeremo in breve e separatamente i due atteggiamenti.   

Per atteggiamento interpretativo si intende ogni atteggiamento e comportamento dell'operatore che si muova lungo due linee: una interpretazione diffusa, che riguarda i modelli di comportamento da privilegiare nella vita quotidiana; una interpretazione stricto sensu, che riguarda il riferimento a meccanismi o modelli della psiche che regolano il funzionamento della persona.    

Il primo atteggiamento fa quindi riferimento alle ideologie e al sapere comune dei tecnici, riflette le loro opinioni, le loro credenze; il secondo atteggiamento fa riferimento, al contrario, ad un sapere codificato ed organizzato, per soli addetti ai lavori.    

Ciascuno dei due atteggiamenti, per vie diverse e soprattutto con strategie diverse, mira a regolare la funzionalità sociale dell'individuo secondo un punto di vista importato dall'esterno e calato sulla persona sofferente. Nel primo caso, ciò che è bene che la persona faccia, pensi o dica, viene direttamente espresso dall'operatore, che si assume la responsabilità di definire i criteri di malessere e quelli di benessere. Nel secondo caso, ciò che è bene che la persona faccia, pensi o dica non viene espresso direttamente: in questo caso, attraverso l'interpretazione codificata si orienta la persona ad assumere un punto di vista che comprende l'esclusione o l'inclusione di determinati atteggiamenti, comportamenti, ecc.     L'atteggiamento interpretativo in genere non coglie i nessi tra i fatti che sono la struttura portante della storia della persona; esso sostituisce alla logica dei fatti la logica dei simboli, delle opinioni, delle credenze. L'analisi della vita quotidiana e della percezione di malattia si fonda sul presupposto di ricostruire il tessuto reale delle relazioni della persona con il suo contesto, di individuare gli interessi economici e sociali che si celano dietro atteggiamenti apparentemente neutrali delle persone, di dare corpo all'interesse soggettivo della persona sofferente anche contro l'affermazione dell'interesse dì altre soggettività. Tutto ciò può essere perseguito attraverso un atteggiamento rigorosamente non interpretativo; intendendo per interpretazione la sovrapposizione di un punto di vista personale (dell'operatore) a quello dell'utente, o la sovrapposizione di un punto di vista simbolico, ovvero di rinvio da un fatto ad un'idea, ad un concetto che sono sovraordinati rispetto al piano in cui si collocano il fatto e le sue relazioni contestuali.

    Antidoto dell'atteggiamento interpretativo è quella posizione soggettiva dell'operatore che non presume niente nei confronti  dell'utente, ma che segue la sua storia alla ricerca di quanto la persona ha dismesso e accantonato grazie a pressioni del suo ambiente.    

Per atteggiamento di controllo si intende qui ogni  scelta di atteggiamento e comportamento dell'operatore che si informi al criterio della non capacità e non responsabilità della persona sofferente.    

Un tale atteggiamento presuppone una concezione della malattia come sospensione delle capacità di autodeterminazione dell'individuo: ad esso si conforma l'operatore quando ritiene di scegliere in nome della persona sofferente. L'operatore in questo caso tende a sostituirsi all'utente, sovrapponendo i propri criteri di sano, giusto, buono, desiderabile, ecc. a quelli eventuali dell'utente; in ogni caso con un tale atteggiamento l'operatore si preclude la possibilità di ricercare con l'utente i suoi personali valori e criteri.   

L'atteggiamento di controllo che l'operatore assume nei confronti della persona sofferente può avere due risvolti: può riferirsi alla scelta di proteggere il contesto contro la persona sofferente, che viene allora considerata pericolosa e portatrice di scompiglio e disordine; o può invece riferirsi ad un atteggiamento di protezione nei confronti della persona sofferente contro il suo contesto: in questo secondo caso la persona viene giudicata debole ed incapace di azioni di tutela di sé.   

Ambedue gli atteggiamenti, quelli interpretativi e quelli di controllo, devono essere limitati al massimo dall'operatore che si avvicina all'uso degli strumenti d'intervento che presentiamo. Essi sono infatti estranei alla logica dell'intervento, e possono considerarsi come controproducenti. L'operatore deve poter stabilire all'interno della sua esperienza di lavoro quali limiti devono avere gli atteggiamenti di supporto e di stimolo verso la persona sofferente affinché essi non decadano in atteggiamenti di protezione e controllo contro l'interesse dello sviluppo delle capacità di autodeterminazione e autocontrollo della persona stessa. Se ad esempio l'operatore sceglie di schierarsi attivamente con la persona in uno scontro con il suo contesto di vita (famiglia, scuola, luogo di lavoro, ecc.), questo schieramento deve avere come effetto quello di controbilanciare il potere sovraindividuale di una situazione o di una persona; non deve invece intaccare le capacità personali dell'utente di condurre o gestire uno scontro. L'utente deve avere chiaro che in ogni caso l'intervento dell'operatore non deve né può sostituirsi alla propria iniziativa.   

Altro compito dell'operatore è far si che il campo d'azione della persona sia sgombrato da atteggiamenti di questo genere provenienti da altre parti del suo contesto di vita ed in particolare dalla famiglia. L'eliminazione o la riduzione degli atteggiamenti di controllo da parte dei familiari costituisce una tappa importante nella strategia di superamento della percezione di incapacità e di malattia.   

La posizione che va assunta dall'operatore, nel momento in cui si confronta con questi atteggiamenti del contesto, deve essere in modo ancora più deciso di tipo non interpretativo di non controllo e di non tutela.   

La dismissione consapevole di due atteggiamenti, che sono molto comuni nella pratica psichiatrica e in quella psicoterapica, prevede che l'operatore assuma una notevole responsabilità: quella appunto di non tutelare e di non far tutelare l'utente; e quella di non sostituire il suo punto di vista a quello vago e confuso della persona sofferente.   

Tutto ciò ovviamente non è senza senso e senza prospettiva: gli strumenti che ha in mano indicano all'operatore che le capacità di controllo  e di comprensione della propria situazione (sia quella attuale di malessere, sia quella futura di benessere) non sono da parte dell'utente perdute  né depotenziate, ma sono soltanto accantonate. Possono quindi essere  riattivate a patto che non sia tolta dalle mani della persona l'operazione  di recupero e riattivazione. Questa possibilità passa attraverso la capacità del tecnico di non assumere su di sé la tutela e il punto di vista  della persona, e di far si che nessun altro se ne appropri fin quando la  persona stessa - e la donna nel nostro caso - non riassuma su di sé, direttamente e consapevolmente, la propria tutela e il proprio punto di vista  su quanto concerne il proprio stato di benessere.    Ciò vale anche nelle   situazioni cosi dette di crisi. I rischi che la  persona corre in queste  circostanze non sono diversi da quelli corsi in  tempi normali. Pensiamo ad esempio - e si tratta di situazioni frequenti  della nostra casistica - ad una donna in stato di confusione o di eccitamento, che intende essere lasciata libera e vuole uscire da sola, eventualmente anche di notte. Il rischio che la donna corre è paragonabile al rischio di ogni donna che esca sola di notte- è un rischio cioè che prescinde dal momento di confusione. Inoltre spesso questo desiderio di girare, di non stare ferma, esprime proprio l'intolleranza per una vita troppo  chiusa e regolata dall'esterno da divieti di questo tipo - non puoi uscire  sola, non devi uscire la sera, ecc. - .

La cosa migliore allora, se si vuole mantenere il rapporto con la donna in direzione di sviluppo e crescita  delle sue potenzialità, è quella di non puntare ad un intervento che riduca o blocchi questa aspirazione momentanea, ma ad un intervento con la  donna e con la famiglia che dia legittimità a questo desiderio anche se  agli occhi del contesto appare incongruo.  Il rischio che "succeda qualcosa" è senz'altro minore rispetto al rischio  che "nulla succeda", ovvero che la persona rimanga bloccata nel suo malessere, anche per essere stata frenata nell'espressione della sua iniziativa  di dissenso. Spetta all'operatore il compito di dare significato e valore  a questi atteggiamenti che il contesto giudica incomprensibili; e spetta  sempre all'operatore insieme alla persona ricostruire il senso specifico  di determinati gesti, senza per altro mai cadere nella interpretazione astratta ed avulsa dai fatti concreti. L'operatore darà allora indicazioni inequivoche sul fatto che la  donna, anche se malata, può mantenere anzi potenziare lo spazio di libero  movimento. In concreto, anche se in crisi, può uscire di casa, frequentare  chi vuole, uscire di notte, allacciare relazioni interpersonali anche di  tipo sentimentale e/o sessuale. Il limite a questo spazio di libertà personale è dato solo dal non invadere spazi altrui, come d'altronde deve succedere in tempi e per le persone, cosi dette "normali".

 L'assumersi questa  responsabilità da parte del tecnico, dimostra in concreto alla donna e  al suo contesto che il sentirsi malato o il giudicare qualcuno malato non  significa essere deprivato o deprivare qualcuno di capacità e responsabilità personali, né tanto meno significa divenire eccezionalmente pericoloso, vale a dire in modo diverso dalla "pericolosità abituale" di ciascun individuo che vive in un determinato contesto sociale.

 

4.5.   Un ultimo problema riguarda l'atteggiamento che, nel corso dell'intervento, l'operatore ha rispetto alla propria storia personale.

La storia dell'operatore può interagire con quella dell'utente? Oppure l'operatore deve mantenere necessariamente la sua storia di vita al di fuori del discorso e del rapporto con l'utente?   

Affronteremo questo problema riferendoci essenzialmente a quella che è la pratica del Servizio donne, a una pratica che prevede l'appartenenza allo stesso sesso sia dell'operatore che dell'utente.   

L'operatrice è allora libera di utilizzare elementi della vita di altre donne in rapporto con l'utente, per attestare e avallare scelte dell'utente, per consolidare il suo punto di vista.

Ciò serve a rinforzare il punto di vista personale dell'utente che è un punto di vista minoritario rispetto a quello del suo contesto di vita. E' importante allora che la persona sperimenti che il proprio punto di vista può essere minoritario, ma che questo non significa isolamento. L'alleanza con il punto di vista della persona sofferente va stimolata anche con la ricerca di altri punti di vista omogenei ad esso.   

La solidarietà che l'operatrice dimostra col punto di vista dell'utente, che è stato giudicato derogante, definisce il ruolo dell'operatrice come modello imperfetto.

Attraverso l'imperfezione insita nella deroga dai modelli dominanti si dà legittimità a comportamenti, pensieri, progetti personali che fino a quel momento venivano considerati insani perché fuori dalle regole praticate e consentite dal proprio gruppo sociale.   

Se l'operatore non appartiene allo stesso sesso dell'utente è chiaro che la rappresentazione del modello imperfetto non potrà riguardare il campo delle figure femminili. L'operatore non potrà portare l'alleanza con l'utente fino a questo punto: potrà comunque evitare tutti gli elementi che tendano a farlo individuare, nell'ambito delle figure del proprio sesso, come figura positiva ed emergente sulle altre.   

Il fatto che l'operatore si rappresenti come modello imperfetto gli consente di non rafforzare la percezione di malattia dell'utente, che è in buona misura fondata sul sentirsi inadeguato ai modelli "perfetti" proposti come sani e normali nel contesto. Per lo stesso motivo, l'operatore non assumerà in alcun caso ruoli tipici delle figure dominanti del conte- sto dell'utente, per esempio quelle parentali.  

Mantenendo se stesso nell'ambito di una rappresentazione non ipertrofica e non onnipotente, l'operatore favorisce invece anche da parte dell'utente il ricorso ad una rappresentazione di per sé e delle proprie capacità più realistica nel suo essere limitata, e meno densa di imperativi e "dover essere".

L'operatore che dà di sé una immagine imperfetta di ruolo serve in definitiva, collateralmente a tutto il lavoro svolto sulla storia di vita dell'utente, a ridimensionare le pretese di perfezione che la persona sofferente rivolge a se stessa, e su cui formula i giudizi della propria inadeguatezza e nello stesso tempo a ridurre il rischio di creare dinamiche di dipendenza nell'utente.  

 


 

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                                    5.   LE FASI DELL'INTERVENTO

  Gli atteggiamenti fin qui esaminati vengono ordinati e modulati nel corso dell'intervento secondo tre fasi principali.  

Una fase propedeutica all'intervento si basa sull'ascolto e sull'analisi della richiesta avanzata al Servizio. Questa fase è quella che consente di individuare le ragioni per le quali una persona si rivolge al Servizio. Ciò che interessa particolarmente all'operatore è individuare l'esistenza di una motivazione personale al rapporto con il Servizio. Spesso infatti vi può essere stata una pressione esplicita del contesto (genitori, partner, figli) a che la persona si rivolga ad un Servizio di salute mentale. L'operatore deve comunque ricercare le condizioni di volontarietà sostanziale dell'intervento, per poter procedere con un'azione che non sia sin dall'inizio deprivata di senso. Si tratta allora di individuare, al di là dell'utente designato, il richiedente sostanziale dell'intervento: a quest'ultimo si indirizzerà preferibilmente l'azione del Servizio.

Oggetto dell'intervento sarà allora, inizialmente, il giudizio di malattia che il richiedente esprime nei confronti della persona designata come utente potenziale del Servizio di salute mentale. Questo atteggiamento vale soprattutto nei casi di richieste avanzate dai genitori, quando riguardino bambini o ragazzi pre-adolescenti.  

In questi casi vi è sempre una presunzione di non volontarietà della richiesta di prestazione da parte degli utenti potenziali; è necessario allora che l'operatore si faccia carico della richiesta, ma non prendendo in carico l'utente designato. L'operatore seguirà allora i genitori o il genitore che caldeggia l'intervento, ascolterà il suo punto di vista, e su questo modulerà il suo intervento.   

Lo stesso atteggiamento vale anche quando si tratta di una istituzione che avanza la richiesta; pensiamo ad esempio ad una scuola che richiede l'intervento per alcuni scolari (in genere scuole elementari e medie): in questo caso il rapporto del Servizio non va stabilito con la famiglia - che non compare nella richiesta - ma con il corpo docente che ha avanzato la richiesta, e con gli insegnanti più direttamente coinvolti nel problema.   

L'analisi della richiesta tende infine a stabilire a chi interessa l'intervento e chi è portatore di una percezione di malattia (sia nel propri confronti che nei confronti di altri); una volta che si è stabilito l'utente reale del Servizio, l'intervento potrà avere inizio.   

La prima fase è caratterizzata dall'ascolto del punto di vista della persona sulla malattia e sui sintomi, sulla storia e sulla percezione di sé secondo l'ottica della malattia.    L'analisi del sintomo e della percezione di malattia è condotta non secondo gli schemi classici che mirano ad una definizione (diagnosi) della situazione, ma attraverso una esplorazione dettagliata e concreta di luoghi, modi e tempi di presentazione del malessere sia nella fase presente che nella fase iniziale. Anche in questa fase di ascolto si inizia quindi a gettare una luce diversa sulla malattia.

In questa fase l'operatore non emette diagnosi né imposta l'intervento sulla prescrizione farmacologica. Una esigenza di tal genere espressa dall'utente viene gradatamente modificata chiarendo che una "diagnosi" corretta della situazione di malessere non può che procedere attraverso la conoscenza di tutte le circostanze che hanno determinato la situazione attuale. Si interviene anche sulla richiesta farmacologica riducendo quelle che sono le aspettative della persona a tal proposito. Se una persona ad esempio ha già esperienza di farmaci che continua ad assumere al momento dell'arrivo al Servizio, si discuteranno con lei gli effetti di questi farmaci, la loro utilità o meno, e si tenderà ad una modifica di alcuni preparati (quelli più incisivi) o ad una loro riduzione. Se la persona non ha mai preso farmaci, ma li richiede, si preciseranno i limiti dei farmaci, la loro nocività nell'assunzione in tempi lunghi, e si. opterà per preparati meno incisivi assunti solo in determinate circostanze: in particolari momenti della giornata, o in determinate situazioni. Successivamente l'uso del farmaco potrà essere consigliato solo nelle situazioni nuove che la persona si trova ad affrontare: ad esempio intraprendere un viaggio che esprime una esigenza personale; mentre sarà sconsigliato nelle situazioni che la persona deve affrontare per "dovere", richiesta di altri e non per scelta personale.

 L'attenzione dell'utente, nella prima fase, viene man mano orientata verso la determinazione di situazioni concrete nelle quali si genera malessere sia specifico sia sotto la forma di sintomi. Si comincia cioè a trovare le ragioni che legittimano la condizione di malessere e che pian piano le tolgano il carattere di estraneità e incomprensibilità.   

In particolare si comincia a scomporre il sintomo in tutti i suoi aspetti, localizzando l'attenzione su ciò che più spaventa l'utente. L'obiettivo iniziale è proprio quello di "familiarizzare" con il sintomo, di vederne le componenti somatiche e quelle psicologiche, individuare le modalità attraverso cui esso si costruisce e cresce su se stesso.   

In questa prima fase si accoglie la richiesta dell'utente di un aiuto per superare un malessere psico-fisico e si propone all'utente  di strutturare un setting (una serie di incontri programmati) per sviluppare una comprensione del malessere e del disagio (sintomi) che preveda il riferimento alla organizzazione e alla storia della sua vita.

Ciò che in sostanza si dice all'utente è che nell'ambito della sua vita vi sono situazioni  (rapporti, responsabilità, carichi di lavoro) capaci di provocare disagio:  queste situazioni vanno man mano individuate e, per quanto possibile, riviste e cambiate. In questo modo si evita di confermare all'utente il giudizio della presenza di una qualche disfunzionalità soggettiva, ma si permette alla persona di vedere il suo malessere - con tutte le sue incapacità  connesse -come legittimo in quanto fondato su difficoltà esistenti al di  fuori di sé.     Il bisogno di "assoluzione", che la donna esprime con il ricorso alla  malattia, viene cosi rispettato ma rivisto sotto un'angolazione diversa  che permetterà poi il lavoro di storicizzazione del disagio.  

 La seconda fase, o fase intermedia, è caratterizzata da tutto il lavoro  che si compie con l'utente per collocare sul piano storico l'origine del  suo malessere.   

In questa fase l'operatore svolge un ruolo attivo come guida dell'utente nella riscoperta o scoperta di tutto ciò che in termini di rapporto (incontro-scontro) tra il contesto e la persona, ha condotto alla percezione  di una disfunzionalità soggettiva.    

Si analizzano qui le condizioni di vita della persona, e l'iter di formazione della percezione di malattia.

 L'analisi delle condizioni di vita mette in luce la relazione che c'è  tra determinati carichi di responsabilità e di lavoro (sia familiare che  extra-familiare) e una situazione di malessere personale proporzionale al  grado di restringimento dei propri spazi di vita (interessi, desideri personali).

Dall'analisi delle condizioni di vita si profila una responsabilità del malessere che non è imputabile alla "natura" della persona. Intendiamo per natura tutto ciò che è visto come di esclusiva pertinenza (fisica, psicologica, caratteriale, ecc.) della singola persona. Si comincia a  profilare una responsabilità attribuibile ad altri che comincia ad alleggerire il pesante fardello della persona sofferente. Successivamente si precisa come determinate situazioni, che producono un restringimento degli  spazi di vita personali, non sono legittimamente da attribuire alla persona sofferente. Si comincia cosi ad intravedere una via d'uscita al sovraccarico di responsabilità e competenze, diversa da quella messa in atto con  la dichiarazione di  malattia, che può essere rappresentata dal legittimo  "alleggerimento" di questo sovraccarico e dalla sua attribuzione alle varie  figure del contesto coinvolte in esso.

Parallelamente, la scoperta dei meccanismi messi in atto dal contesto  per legittimare le proprie richieste onerose, facilita da parte della  persona il riconoscimento del processo di formazione della percezione di  una propria inadeguatezza ed incapacità.    

In questa seconda fase si precisa meglio l'atteggiamento del Servizio  di non ricorso alla attestazione di malattia: l'utente infatti comincia a leggere la sua situazione di malessere in termini diversi da quelli della malattia. Tutto ciò che costituisce una deroga del ruolo era prima attribuito dall'utente alla malattia; ora viene rivisto e attribuito alla impraticabilità di certe richieste di ruolo.   

 

La terza fase o fase finale dell'intervento prevede la costruzione da parte dell'utente di un progetto di vita alternativo a quello della malattia. Dalla percezione di una malattia, di un sintomo scisso e scollegato, la donna arriva a percepire la propria sofferenza con un significato. Il significato è quello della impraticabilità a continuare per una strada, di impossibilità a mantenere inalterato il proprio tipo di vita, il modo di essere prevalentemente nella dimensione del "per altri". La donna arriva ormai in questa fase a collegare il proprio malessere con una modalità di esistenza codificata rigidamente dalle regole di ruolo (sia quello di casalinga che di emancipata).

Ciò comporta che la donna si avvii a progettare una modifica di quella immagine di ruolo che ha funzionato nella sua storia come supporto sociale delle proprie esperienze di limitazione, chiusura, oppressione.   

La nuova progettualità della donna, che si riferisce ad un modo diverso di vivere il proprio ruolo sessuale, scaturisce dall'analisi fatta della sua storia ed in particolare di tutti quegli elementi, definibili come desideri ed interessi personali, che sono stati dismessi o accantonati in nome di richieste di ruolo provenienti dal contesto.   

Questa nuova progettualità passa attraverso dei cambiamenti graduali di atteggiamento della donna che sperimenta cosi la possibilità di "derogare" alle norme del proprio contesto senza incorrere in sanzioni o colpevolizzazioni.   

I cambiamenti che la donna sperimenta sono quelli che invertono la direzione della prassi tradizionale del ruolo femminile- una prassi che da "fare per altri" diviene gradualmente "fare per sé".   

L'esperienza di modifica di atteggiamento rispetto alla pratica di ruolo ribalta il punto di vista della immodificabilità di questo ruolo e toglie valore alla necessità di ricorso alla malattia come composizione di una contraddizione senza via di uscita: tra rifiuto/impossibilità a far fronte ad una funzione sociale vissuta come normale/naturale ed una sofferenza prodotta dalla conseguente immagine di sé come persona "anormale/in- naturale".   

In particolare la nuova progettualità fa i conti con la progettualità della donna messa in campo fin dalla adolescenza, nei primi scontri con il contesto per l'affermazione di una      propria autonomia di scelte. I vecchi progetti risultano ora come ingabbianti: pur affermati nello scontro con il contesto essi portano il segno della loro relativa inautonomia: si tratta infatti di progetti che si fanno carico della responsabilità di dimostrare a sé o agli altri il proprio valore e le proprie capacità. Come tali essi costituiscono dei limiti, spesso insuperabili, alle necessità e alle evenienze della propria storia che impongono dei cambiamenti dei progetti - a suo tempo formulati - a vantaggio del proprio benessere.

Nella fase della costruzione della nuova progettualità e dei nuovi modi di essere l'operatore svolge un ruolo di riferimento e di memoria della storia dell'utente. Egli in tal modo garantisce che la persona si mantenga il più fedele possibile agli elementi della sua storia (sia quella vissuta e poi dismessa, sia quella non vissuta ma desiderata) che nel corso dell'intervento sono emersi come sicuramente rappresentativi delle esigenze e degli interessi personali e totalmente estranei alle esigenze e agli interessi altrui.   

In questa fase l'operatore non deve intervenire a presentare o a caldeggiare un determinato progetto di vita che gli pare più adeguato alla persona: egli non potrebbe in questo modo che far valere il proprio punto di vista, le proprie opinioni. L'operatore non deve distribuire modelli di vita pre-confezionati:    spetta alla persona sofferente ridefinire la propria progettualità, contando in questo sulla guida storica dell'operatore.   

D'altra parte modelli alternativi che riguardano i ruoli sessuali non sono codificati socialmente. Ciascuna donna dovrà ricavare da se stessa un modo di vivere più congruo e meno dissonante rispetto alle sue esigenze, attingendo all'esperienza personale e alla propria storia.  

 


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6.  CONSIDERAZIONI SUL  MODELLO DI INTERVENTO

 

  Vorremmo dare ora una valutazione complessiva della filosofia su cui si basa il modello operativo del Servizio fin qui tratteggiato.   

Senza giungere ad una definizione univoca esaminiamo in breve le sue caratteristiche più salienti cosi come sono man mano emerse nella esposizione.   

Si tratta di un modello che si riferisce ai modi organizzativi della mente relativi al processo di ammalamento.   

I meccanismi dell'ammalamento si riferiscono ad un individuo le cui funzioni (mentali e fisiche) non sono separate e autonome rispetto al contesto sociale. Mente e corpo (mind and body) sono visti come strutture storiche in rapporto con la cultura, l'economia, i modelli sociali ed i ruoli sessuali. In particolare l'individuo è qui considerato come persona o soggettività umana determinata dal suo farsi storico e sociale. La persona di cui parliamo non possiede caratteristiche proprie (esigenze, desideri, ecc.) che non siano determinate dalla storia personale. La storia personale si declina in termini di rapporto con il contesto (persone ed istituzioni); questi rapporti sono regolati da leggi e modelli di ruolo sociale. Queste leggi prevedono di fondare naturaliter la dominanza di un sesso su un altro. In ciò la soggettività femminile si presenta sulla scena storica come dotata di minor potere.   

I meccanismi dell'ammalamento e il modello di malattia, compresi nel nostro modello operativo, si fondano nella comprensione della storia della persona sofferente. La storia dell'individuo diviene allora il campo di strutturazione del processo di ammalamento e la chiave di lettura per la sua comprensione.   

I meccanismi di ammalamento fondati nella storia personale, non configurano caratteristiche naturali (non storiche) della soggettività umana; essi si riferiscono a modalità di rapporto consuete intercorrenti tra la persona ed il suo contesto di vita.    

Il modello di intervento che se ne deduce è quindi un modello storicistico contrapposto a naturalistico. E' un modello logico-concreto in quanto si fonda sull'analisi e la concatenazione logica   dei fatti concreti della vita quotidiana. Non è interpretativo o meta-storico; ogni fatto o accadimento trova infatti la sua spiegazione nel collegamento e nella relazione con altri fatti e situazioni. Ogni spiegazione procede, secondo un ordine logico, dalla precedente; non vi sono salti tra un ordine di fatti e spiegazioni ed un altro ordine. Questo unico ordine è dato dal mantenersi al livello della storia dell'individuo senza cercare al di fuori di essa le ragioni degli accadimenti (vissuti, fatti, relazioni, desideri, ecc.).   

L'ammalamento non è visto come un processo a causalità lineare: ogni fatto è collegato ad un altro secondo un processo relazionale all'interno del quale ciò che gioca un ruolo determinante è la contrapposizione di interessi (sociali, culturali, economici, di ruolo sessuale) tra il contesto e la persona. L'intervento è a sua volta ricostruzione storica di questo processo alla ricerca di spazi possibili di mutamento di equilibrio degli interessi tra il contesto e la persona.   

Si tratta di un modello di intervento verbale. Il linguaggio infatti è la caratteristica dominante della soggettività umana e della sua storia.   

E' un modello di intervento che si dà solo nel rapporto don la persona sofferente e con la sua attiva partecipazione. Se la persona non recupera la sua memoria storica, se non ritrova in essa gli elementi del processo di formazione della malattia, l'intervento non si realizza. Esso non si dà al di fuori del processo di comprensione e ristrutturazione del punto di vista dell'utente.   

Molte e sostanziali differenze demarcano il nostro tipo di intervento dai restanti modelli d'intervento più o meno tradizionali: biologici, psicologici e sociologici. Senza voler fare qui alcun confronto analitico, sottolineiamo soltanto - in maniera volutamente schematica - quella che appare come la differenza fondante. I modelli biologici e quelli psicologici possono, per il nostro scopo, essere considerati in modo unitario in un modello bio-psicologico.    Questo modello (bio-psicologico)  si fonda sulla rilevazione di strutture (fisiche a psichiche), di relazioni, comportamenti primitivi o naturali da cui discendono regole e leggi di funzionamento del corpo e della psiche; essi valgono per ogni persona indipendentemente dalla sua storia, dal suo ruolo sessuale, dalla sua posizione economico-culturale. L'intervento di tipo bio-psicologico presuppone un danneggiamento di queste strutture di base della persona, che può derivare da: alterazioni bio-chimiche; da disturbi delle relazioni infantili; da apprendimenti di patterns comportamentali inadeguati.   

Gli interventi corrispondenti possono essere: un intervento farmacologico che ripristini un equilibrio bio-chimico; un intervento di tipo comportamentista per ripristinare patterns adeguati; un intervento cognitivista se si pensa ad un disturbo della organizzazione del pensiero; un intervento interpretativo che metta in relazione gli avvenimenti attuali della persona con i modelli delle prime relazioni infantili (relazioni parentali).   

Tutti gli interventi di questo tipo presuppongono un funzionamento normale della persona umana, ed un altro anormale. La persona è vista poi secondo una sola angolazione: come corpo o come mente, come istintualità, ma nessuna di queste prospettive si integra con le altre e tanto meno dà luogo ad una visione storicista della persona e dei suoi rapporti.

L'obiettivo di questi interventi è la riduzione del comportamento anormale a quello - considerato e presupposto dal modello - come normale.   

In questo modo ciascun tipo di intervento dovrà possedere un modello di benessere cui la persona deve adeguarsi. Ogni intervento di questo tipo non si diversifica sulla base delle persone e della loro storia: esiste un unico modello di normalità e di benessere ed esso viene riproposto in ogni situazione. L'individuo con cui interagiscono questi modelli è un individuo non storico, ma portatore di una natura sempre identica a se stessa.   

Il modello d'intervento socio-politico tiene conto per certi versi delle peculiarità storiche che possono stare alla base del disagio psichico. Esse sono però riguardate in genere sotto il profilo economico, e si applicano a gruppi complessi di persone, seguendo una impostazione che richiama, seppur alla lontana, quella marxiana della classe. Sfugge del tutto a questo modello la differenza storica fra i due sessi, ed i dislivello di potere che essa ha comportato e comporta.

Questo modello dimentica inoltre che le differenze sociali e sessuali hanno creato nelle persone (ed in particolare nelle donne), oggetto di queste discriminazioni, atteggiamenti, vissuti, punti di vista giustificativi della propria marginalità: hanno cioè prodotto vissuti e percezioni di incapacità e debolezza soggettivi oltre che sociali. Su questi vissuti è necessario agire, se si vuole operare nella realtà presente e soprattutto se si vuole restituire alle persone la consapevolezza dei meccanismi della loro esclusione, e la possibilità di riprendere il controllo personale sulla propria vita.

 

 



[1] Ci riferiamo in particolare alle attività di informazione del Servizio Donne rivolte ad alcune USL italiane, tra cui la USL 25 dell'Emilia Romagna; e ad alcuni organismi stranieri come il Consiglio nazionale delle ricerche della Norvegia è la clinica psichiatrica dell'Ulleval  Sykehuis di Oslo.

[2] "Malattia mentale e ruolo della donna", CNR, Progetto finalizzato Medicina Preventiva, a cura di E. Reale, V. Sardelli, A. Castellano, Il  Pensiero Scientifico Editore,  Roma 1982.

[3] Cfr. E. Reale: Il posto della donna nella storia della psichiatria. In:    Devianza ed Emarginazione, anno IV; N. 8, 1985, pag. 71 e segg.

[4] Cfr. E. Reale et altri: Malattia mentale e ruolo della donna, op.cit pag. 298.