CENTRO PREVENZIONE SALUTE MENTALE DONNA

Responsabile: dr. Elvira Reale

 

 

Rosaria, la depressione e la stanchezza del doppio lavoro

 

D. - Qual'era il suo problema?

R. - Avvertivo un disagio che si manifestava con un malessere di natura fisica, per cui pensavo da un lato di essere malata, dall'altro poi mi rendevo conto che si trattava di un disagio psicologico. Mi sono rivolta prima al medico curante, poi ad un neurologo che  mi ha dato una cura con psicofarmaci: la situazione per un po’ è migliorata poi é tutto ritornato come prima.

D. - Parliamo un poco più nel dettaglio: che tipo di disturbi avvertiva?        

R. - Avvertivo un crollo fisico tutte le volte che stavo un pochino più affaticata. Mi sentivo incapace di fare qualsiasi cosa e correvo a buttarmi sul letto. Avevo mal di testa tremendi, una specie di oppressione proprio sulla testa, avvertivo una sensazione che  mi prendeva alla nuca; per tutto questo sono arrivata al punto che non riuscivo più ad uscire da casa. Questo é successo dopo un episodio in cui mi sono sentita male per strada: mi si sono bloccate le gambe e non riuscivo più a camminare; ho avuto una  paura enorme di quel momento e mi sono detta: "Credo di stare impazzendo". Da quel giorno non sono più uscita da casa per un mese: in casa stavo bene, se mi avvicinavo alla porta mi riassalivano le paure. In quel periodo sono andata dal neurologo e ho preso dei farmaci: con l'aiuto di questo ho ripreso ad uscire, ma non più da sola, sempre accompagnata. Altre volte il blocco mi é ritornato e soprattutto c'era la paura che mi ricapitasse ogni volta che mi trovavo fuori casa.

D. - Da cosa faceva dipendere questi malesseri?

R. - Li collegavo ad una serie di eventi accumulati negli anni precedenti: la malattia di mio marito, la malattia di mia suocera, il mio senso del dovere per cui mi imponevo di fare una serie di cose. Ricordo che poco prima di stare male, di avere tutti questi disturbi, non ce la facevo più a fare sempre tutto. Cominciava dentro di me ad esserci una specie di rifiuto,  per cui poi mi sentivo male. Era come se volessi dire "sto male" per non fare una certa cosa; a volte pensavo questo però poi non sapevo assolutamente cosa fare per evitare il tutto (cose da fare, doveri malesseri)                                                                                       

D. - Cosa pensava nel tempo di questo tuo problema?                                                                      

R. - I familiari mi spingevano ad andare da un medico con la speranza che mi desse una cura e che mi passasse il tutto. Lo consideravano un esaurimento fisico e credevano in una cura ricostituente.                                                                                                                      

 D. - Quando sono cominciati i primi sintomi?                                                                                     

R. - Li ho avvertiti da molti anni, praticamente per quanto abbiamo potuto ricostruire con la dottoressa, forse dopo il matrimonio dopo la nascita del bambino. Durante una vacanza ad esempio, quando il bambino aveva poco meno di un anno mi è capitato di stare molto male, di avere un crollo fisico, uno svenimento e poi questo non desiderio, questa mancanza d'interesse a tutto, o il senso di una incapacità. Poi mi é capitato altre volte di avere questi malesseri; questi episodi si sono ripetuti nel tempo ma a distanza l'uno dall'altro. Allora giravo con zollette di zucchero: lo interpretavo, sulla scorta di quanto mi diceva il medico curante, come un calo di pressione.                                                                            

D. - In questo periodo in cui c'erano i malesseri ma erano sporadici e attribuiti solo a un fatto fisico come svolgeva la sua giornata? Quali erano i suoi compiti? Quali i suoi interessi?

R. - Le mie giornate erano sempre le stesse, e neanche dopo sono cambiate è solo aumentata (dopo) la paura e l'ansia. La mattina o al pomeriggio andavo a scuola, secondo i turni che avevo, e quando non ero a scuola ero a casa oppure uscivo per fare la spesa: tutto di corsa naturalmente. 

D. - Suo marito l'aiutava?                                                                                                  

R. - No era tutto sulle mie spalle. Quando non c'ero a casa c'era una donna che mi sostituiva, appena tornavo da scuola però andava via e toccava a me occuparmi del bambino e di tutte le altre cose. Quando poi mettevo a letto il bambino, correggevo i compiti per la scuola, oppure preparavo il materiale per il giorno dopo. Dovevo fare questo quando ero già stanca e non mi rimaneva lo spazio per  leggere o guardare qualche programma televisivo che mi poteva interessare.                   

 D. - E suo marito come trascorreva la sua giornata?                                                         

R. - Completamente fuori casa, poi quando rientrava avrebbe voluto frequentare gli amici, ma io arrivavo alla sera quasi sempre stanca e i nostri amici invece erano abituati a fare le ore piccole. D'altra parte erano amici più di mio marito ed io non li prediligevo.          

D. - Cosa è cambiato quando ha cominciato a stare male più intensamente?                        

R. - Le giornate erano sempre quelle, probabilmente prima mi sembrava un fatto naturale svolgere la giornata in quella maniera, dopo devo averlo cominciato a sentire come una fatica.. Poi il cambiamento é avvenuto quando sono andata in pensione.                      

D. - Perché é andata in pensione?                                                                                         

R. - E' capitato di dover prendere una decisione proprio nel periodo in cui stavo malissimo. Si tratta di tre anni fa, prima di venire a questo Servizio. In quel periodo mi capitava spesso di dover uscire fuori dalla classe perché mi sentivo male: mi sembrava una situazione insostenibile. Poi mi hanno spinta molto in questa direzione mia madre e mio marito. Ritenevano infatti che avendo meno da fare molto probabilmente sarai stata meglio. In quel momento ero in una fase proprio di completa sconfitta; mi rendevo conto che non era quella la soluzione ma non vedevo altro a portata di mano. Mi sono detta: "Cominciamo ad eliminare un qualche cosa che mi porta senz'altro affaticamento".            

D. - Aveva progettato qualcosa nel dopo pensionamento?                                                              

R. - Assolutamente niente. Tanta gente decide di andare in Pensione per dedicasi ai propri interessi, così era capitato nel caso di mie due colleghe che hanno scelto di andare in pensione per dedicarsi ciascuna a un proprio progetto vecchio o nuovo. Nel mio caso invece si è trattato di una scelta fatta solo con la speranza di stare meglio. Quella all'epoca era l'unica possibilità che intravedevo per stare meglio. 

D. - Cosa è successo dopo?                                                                                                

R. - L'essere andata in pensione non ha risolto il mio problema. Passavo parte della giornata a letto senza però la sensazione di riposarmi come avrei voluto o come avevo progettato. Anche se avevo più tempo non lo utilizzavo granchè. In casa continuavo a fare le stesse cose, mentre invece erano diminuite le occasioni di uscita. Se la scuola mi aveva costretto a uscire di casa nonostante le paure, una volta in pensione le paure erano diventate un ostacolo insormontabile.                                                                         

D. - Come trascorreva allora la sua giornata?                                                                    

R. - Mi alzavo una mezz'ora più tardi rispetto a prima, per preparare la colazione a mio figlio allora tredicenne. Lo avviavo a scuola ma mi sentivo in colpa per il fatto che non lo accompagnavo con la macchina. Così aspettavo dietro ai vetri che passasse il pullman  andando avanti e indietro dal letto alla finestra. Poi facevo colazione e sentivo il bisogno di rimettermi a letto. Poi mi alzavo e facevo quello che c'era da fare in casa e poi mi concedevo un'altra sosta a letto. Poi avviavo il pranzo. Il pomeriggio, dopo pranzo, riposavo un poco e poi andavo nella stanza di mio figlio per vedere cosa stava facendo con lo studio. Avrei voluto seguirlo ma spesso c'era un rifiuto da parte  sua, e quindi lo seguivo e non lo seguivo! Nel senso che spesso questi pomeriggi insieme finivano con discussioni e litigi. In definitiva la mia giornata la trascorrevo a casa a non far quasi niente. I rapporti con le amiche erano ridotti a delle telefonate io dicevo: "Verrò, verrò"; loro dicevano: "Tu hai più tempo perché non vieni?". E poi per lo più rinunciavo. Oppure aspettavo il fine settimana per poter essere accompagnata da mio marito. Dovevo essere sempre accompagnata in ogni posto; avevo il terrore di uscire.                                                                                                                                                                                    

D. - Dopo il pensionamento si è modificata la percezione del malessere? Cosa pensava di se stessa? 

R. - Continuavo ad essere confusa. C'erano periodi in cui mi dicevo che si trattava di un disturbo fisico, altre volte che mi dicevo, dopo essere stata da un medico per qualche esame o accertamento che fisicamente stavo bene e si trattava di un disturbo psicologico.                                                                                                                              

D. - In questo periodo com' era l'atteggiamento dei suoi familiari? Di suo marito? Di sua madre? 

R. - Di mia madre, molto protettivo. Quando stava a casa mia (lei sta periodicamente a casa dei figli) voleva sobbarcarsi di tutto il peso della casa, voleva sempre che io riposassi. Poi mi spingeva ad uscire offrendosi di accompagnarmi, ed anche mio marito.          

D.- Cosa  pensavano della sua situazione?                                                                        

R. - Non si sono mai molto pronunciati. Però puntavano molto sullo sforzo di volontà. sul fatto che dovevo metterci la volontà per stare meglio. Dicevano: "Tu se vuoi puoi stare meglio". Io per questo mi arrabbiavo, mi sentivo rimproverata implicitamente di  non farcela, di non metterci volontà, come se poi si trattasse di volontà in queste cose! Mi rendevo conto che non capivano e mi chiudevo in me stessa. 

D. - C'era un modello di donna cui avrebbe voluto somigliare?                                        

R. - Avrei voluto essere molto attiva. Ho sempre invidiato quelle amiche che mi raccontavano che nel corso della giornata facevano questo e quello, che oltre alla scuola avevano altri interessi che andavano a teatro. Invidiavo cioè quelle donne che riuscivano ad organizzare in modo pieno la loro vita. Però non pensavo assolutamente di poterlo fare anch'io. Di queste amiche condividevo l'atteggiamento che consentiva loro di prendersi spazi per sé senza sottrarre nulla alla famiglia. Non condividevo l'atteggiamento di quelle che abbandonavano la famiglia per dedicarsi solo ad interessi personali. D'altra parte il mio modello prevalente di donna é stata mia madre, una donna sempre dedicata agli altri e in particolare alla famiglia.         

D. - Perché pensava di non poter realizzare ciò che facevano le amiche di cui condivideva gli atteggiamenti?

R. - Pensavo di non farcela un pò perché mi ritrovavo sempre nella stessa situazione fisica che mi dava uno svantaggio poi soprattutto mi accorgevo che nella nostra famiglia i legami e i doveri erano molto duri, molto più sentiti che non da loro. Io mi sono  sempre fatta un dovere di tutto, ad esempio ho assistito nel mio tempo libero mia suocera che è stata lungamente malata. Questo senso del dovere mi á stato inculcato fin da bambina.                                                                                                                               

D. - Cosa pensavano di lei i familiari prima di questo stato di malessere?                                 

R. - Mi consideravano la classica brava ragazza, senza grilli per la testa che, non dava alcun problema agli altri. Tutto quello che dovevo fare, lo facevo bene, lo facevo con impegno. Così è stato fin dai tempi della scuola. In genere quello che facevo mi riusciva bene. 

D. - Quando ha cominciato a sentirsi incapace di fare qualcosa?                                        

R. - Da bambina ero una bambina sicura, vivace; probabilmente qualcosa ha cominciato a cambiare quando la famiglia si è trasferita a Napoli. Sono venuta in questa città a 17 anni, prima abitavo in provincia e mi ci trovavo bene: avevo amicizie, una casa che mi piaceva, andavo bene a scuola, insomma ero bene inserita in quell'ambiente. Invece una volta venuta a Napoli ho avvertito un senso di isolamento. La casa non mi piaceva, non  c'era spazio intorno, non c'era sole; le amicizie ho stentato a farmele, poi attraverso una compagna di scuola ho conosciuto a 18 anni mio marito.

 D. - Questa incapacità era allora il non sapersi adeguare al nuovo ambiente? C'era altro? 

R. - Non so, ho cominciato a sentirla probabilmente per il fatto che inizialmente ho incontrato per la prima volta difficoltà a scuola. Ricordo che ebbi un tre in Storia e la mia reazione fu molto pesante: non volevo più studiarla, questa cosa, il non andare bene  a scuola é l'unica cosa per la quale all'epoca potevo sentirmi incapace. Poi l'ho superata in fase ancora scolastica e poi probabilmente è ricomparsa con il mio ruolo materno.           

D. - Può descrivere questo senso di incapacità come madre?                                                

R. - Mi è sembrato sempre di non essere mai stata una brava madre. Nel senso che facevo tutto quello che mio figlio richiedeva dal punto di vista materiale però mi sembrava di non essere capace di essergli vicina.                                                                              

D. - Di fatto cosa accadeva?                                                                                                      

R. - Il bambino spesso richiedeva la mia presenza, per esempio, per giocare quando rimaneva in casa solo con me; invece io, anche quando avevo tempo libero non ero capace di intrattenermi con lui. C'era mia cognata invece che non se ne fregava della casa, poteva vivere nella sporcizia, però stava vicino ai figli. Io non ne ero capace.           

D. - Perché dice che non ne era capace?                                                                                     

R. - Non lo volevo fare! Ma l'ho vista come incapacità mi sembrava una cosa doverosa che io non riuscivo a fare.                                                                                                          

D. - Era una cosa che non le piaceva e per questo era spinta a pensare che si trattava di incapacità, visto che era giusto e doveroso farlo?                                                               

R. - Proprio così.                                                                                                                    

D. - Di questo, cosa ne pensava suo marito?                                                                      

R. - Mio marito non ne sapeva niente. Non si é mai occupato del bambino da nessun punto di vista, cosi come non si é mai occupato dei problemi familiari e di casa.                

D. - Di lei cosa pensava?

R. - Io gli sono sempre andata bene, fino a quando non ho cominciato ad essere insofferente. 

D.- Si è trattato del periodo del malessere?                                                                            

R. - No prima, ad un certo punto il fatto che mi addossavo tutte le responsabilità, il fatto che mi occupavo di tutto io , non mi é più andato bene, ne avvertivo tutta la stanchezza. A questo punto ho cominciato a lamentarmi della sua assenza nell'ambito di quelli che io ritenevo essere doveri familiari. Per esempio cercavo di fargli capire che certe cose doveva farle, che erano anche suoi doveri. Anche con la madre: ho dovuto lottare perché   lui se ne occupasse, fino a quel momento anche la responsabilità della madre, la sua malattia, il suo essere vedova e sola, me lo ero accollato io. La sua risposta all'epoca era che io esageravo con tutti questi doveri e responsabilità. In sostanza non si rendeva neanche conto di quali fossero determinate responsabilità come quella di essere padre o figlio. Mentre prima tutto filava liscio perché io non ne parlavo ma provvedevo a tutto poi divenni io quella che esagerava i problemi. A lui non andava bene il fatto che mi lamentavo e cercavo di coinvolgerlo, di fronte a questo atteggiamento mi colpevolizzava e negava che i problemi esistessero. Io riconosco di essere apprensiva però se allora le cose non le facevo io nessun altro le avrebbe fatte e quindi ero costretta anche non volendo a dovermene occupare 

D. - A questo punto ha emesso di lottare?                                                                              

R. - Si, ho poi desistito perché vedevo inutili i miei sforzi di coinvolgerlo. E' rimasta la stanchezza e poi la decisione di eliminare almeno un elemento di questa situazione di affaticamento: il lavoro, ora so che non á stata la decisione giusta, ma all'epoca gli altri hanno pensato che così sarei stata libera di occuparmi meglio e da sola (in particolare mio marito) dei doveri e dei compiti familiari.

D. - Ritorniamo così al malessere e al suo inizio, a quali specialisti si è rivolta prima di venire a questo Servizio?                                                                                                       

 R. - Per un periodo di tempo mi sono affidata al mio medico curante e ho fatto una serie di cure ricostituenti. Poi mi sono rifiutata di farle perché le consideravo inutili, non risolvevano il problema dell'affaticamento e della stanchezza. Poi sono passata ad alcuni medici specialisti come il neurologo: inizialmente mi recai dal neurologo per fare un elettroencefalogramma. Avevo infatti dei tremendi "scricchiolii" alla testa. Non   riuscii a completare questo esame perché stavo fortemente ansiosa e di conseguenza anche il medico sì innervosì. 

D. - Cosa ricavava da questi medici in termini di giudizi della sua situazione?                   

R. - Questi medici mi dicevano che stavo bene e che dovevo uscire; quando parlavo di questa incapacità ad uscire mi dicevano che non vi dovevo rinunciare e che l'avrei superata. Poi in seguito cominciavo a stare ancora più male e andai da un altro neurologo. Questi scrisse sul ricettario: "depressione e non ricordo cosa altro". Quando sono andata da questo neurologo stavo talmente male che non riuscivo a parlare con una persona, stavo rintanata a casa (avevo già lasciato il lavoro), non riuscivo a guardare l'interlocutore in faccia. Così mi indicò questo neurologo un amico medico.                         

D. - Ha fatto delle terapie farmacologiche?                                                                          

 R. - Si feci una cura a base di antidepressivi, che in quel periodo in verità mi aiutarono. Facevo la cura con costanza prendevo tre o quattro pillole al giorno. Ho fatto tutto quello che il medico mi ha detto di fare. 

D. - E dopo?                                                                                                                                   

R. - Come ho già detto visto che dopo un periodo di maggiore tranquillità i problemi erano sempre là, e continuavo con i farmaci cercai di dare un'altra soluzione al problema. Un'amica mi consigliò di andare da una psicologa. Questa psicologa mi disse che i miei problemi erano talmente profondi che occorreva una terapia della durata minima di tre anni con tre sedute settimanali. Una cosa troppo impegnativa!                         

D. - Le sembrava troppo pesante?                                                                                      

 R. - Avevo una certa paura di farla. Lei stessa disse: "Ci pensi bene, deve essere consapevole del fatto che noi andiamo a rimuovere questo suo inconscio, e deve essere disposta ad accettare quello che viene fuori". E ancora mi disse:" Io ora non so niente   di lei, mettiamo per caso che tutto dipenda dal suo rapporto coniugale, lei a questo punto, una volta che si è resa conto di queste cose, deve trarne le dovute conclusioni, si sente allora a queste condizioni di intraprendere la terapia?" Questo mi spaventò e vi          rinunciai.                                                                                                                                 

D. - Come è arrivata a questo Servizio?                                                                                

R. - Ho letto un articolo sul giornale in cui si parlava dell'esistenza di questo centro, c'erano degli esempi di interventi e mi identificai in queste donne: erano venute al centro ed avevano i miei stessi problemi.                                                                                    

D. - Di cosa si è cominciato a parlare?                                                                                

R. - Ho cominciato a parlare di questo malessere che avvertivo, sentivo in quel periodo un forte bisogno di parlare dei miei problemi.                                                                      

D. - Cosa succedeva durante questi colloqui?                                                                    

R. - Durante il colloquio, che aveva una frequenza settimanale cominciavo a sentirmi più serena. Poi durante la settimana cercavo di ricordare tutte le cose che erano state dette e questo mi procurava ansia. Quando uscivo dal Servizio ero contenta di aver messo fuori i problemi, era la prima volta che lo facevo. Ero contenta del fatto che ci fosse una persona che mi stimolasse a parlare, lo desideravo proprio, però dovevo trovare la persona adatta. In quel periodo c'erano le persone che mi stavano intorno ma che sottovalutavano i miei problemi, come ad esempio una mia cognata la quale si metteva a ridere quando le dicevo che avevo quella sensazione in testa. Quando ho trovato qui una persona che mi comprendeva e non mi derideva è stato motivo di sollievo.                     

D. - Poi?                                                                                                                                          

R. - Si é affrontato il problema del farmaco; mi sentivo dipendente dal farmaco, lo portavo sempre con me in borsa per paura di stare male. Ho capito che non era un toccasana, in varie fasi dell'intervento l'ho abbandonato e ci sono ritornata; avevo  però acquisito la certezza che un giorno avrei smesso definitivamente.                                      

D. - Ci sono stati elementi significativi dell'intervento che hanno prodotto delle modifiche?                                                                                                                                

R. - Da uno dei colloqui riuscii a capire che dovevo cominciare ad occuparmi meno degli altri, delle persone che mi circondavano. Ho capito anche che questo è il modo migliore per avere un rapporto con gli altri. E anche questo per me è stata una cosa importante anche se poi non so fino a che punto sono riuscita a realizzarla.                      

D.- Può fare un esempio di come l'ha realizzata rispetto ai compiti quotidiani?                

R. - Ad esempio in passato mi sono spesso scontrata con mia madre per impedirle di fare i lavori in casa; mi sembrava doveroso non lasciarglieli fare, perché anziana ecc. ora sono un pò cambiata, nel senso che ho capito che se lei fa certe cose evidentemente sente di farle, ha un proprio bisogno che esprime; per questo non spreco più energie nell'oppormi a questo suo atteggiamento. Così anche con mio figlio cerco di non intervenire in quelle che penso siano sue scelte, anche quando non le condivido.                  

D. - Continuiamo con le modifiche, vi sono altre acquisizioni nuove?                                          

R. - La necessità e il desiderio che io oggi sento di trovare uno spazio per me stessa e dei miei interessi. Mi è stato inizialmente difficile perché mi sembrava di non avere alcun desiderio, anche se a livello teorico li avevo, sembrava sempre che non riuscissi a realizzarli. In concreto ho iniziato ad interessarmi di ecologia, ho seguito alcuni seminari, mi sono iscritta a un gruppo. Poi alcune cose che cominciavano a riconoscere come piacevoli ho iniziato a farle come ad esempio l'andare a teatro.                                  

D. - Cambiava il suo modo di valutare il malessere?                                                             

R. - Si, cercavo ora di collegarlo a qualche fatto della mia vita quotidiana; mi ero abituata cercare di pensare, se mi sentivo male, a cosa mi fosse successo.                                

D. - Vi riusciva?                                                                                                                      

R. - Si, ci riuscivo. Riuscivo ad individuare uno specifico problema tra gli altri. Ero divenuta, così capace di modificare la cosa che non andava, chiarirla in una discussione. magari con mio marito, se ad esempio aveva fatto qualcosa che a me non garbava.          

D. - Cosa aveva impressione che cominciasse a cambiare durante l'intervento? E in seguito 

R. - Quello che ho avuto l'impressione che si modificasse era il mio modo di vedere le cose. Il pensare che tutto questo malessere non dipendeva dal fatto che io non stavo bene fisicamente o dal fatto che io non funzionavo ma perché c'era stato un qualcuno o un qualcosa che me lo aveva provocato. Per me è importante essere riuscita a capire questo 

D. - Cosa cambiava più lentamente?                                                                                   

R. - Gli altri non cambiavano. Quando ho voluto che qualcosa cambiasse l'ho dovuto chiedere, ad esempio al livello di collaborazione degli altri in casa, l'ho dovuto chiedere io, non é che la situazione cambiava da sola, cioé ero io che mi dovevo rendere  conto di quello che volevo e avanzare le mie richieste.           

D. - E prima le richieste non c'erano?            

R. - No c'erano solo i lamenti, dopo però che mi ero sobbarcata tutto io.

D. - Mi faccia qualche esempio di questo periodo in cui, durante l'intervento, cambiavano, o cominciavano a cambiare le cose. Ad esempio come trascorreva la sua giornata? Come si andava modificando?                                                                          

R. - Mentre prima avevo cominciato col dire che mi sentivo sempre stanca, via via questa stanchezza ha cominciato a diminuire. Sentivo questo bisogno di uscire di casa di fare qualcosa di diverso, per esempio l'anno scorso mi sono inscritta ad una palestra, prima pensavo di non aver neanche questo desiderio mi sono resa conto in realtà che lo avevo avuto anche negli anni precedenti però non lo dicevo neanche a me stessa perché mi  sembrava proprio impossibile riuscire a farlo. Mi é anche costata fatica il farlo però lo sentivo come una mia conquista e ne ero contenta.                                                      

D. - Cosa è successo al corso?                                                                                               

R. - Quando mi sono inscritta il corso era iniziato da alcuni mesi, e quindi vedevo le altre donne che facevano bene certi esercizi, mentre io non li sapevo fare e mi sentivo inferiore alle altre. Poi a poco a poco vedevo che c'erano invece altre che li facevano come me. Mi veniva spontaneo guardare una donna che aveva un bel corpo, senza pancia e mi sentivo inferiore poi facevo il confronto con il corpo di altre e vedevo che c'era di peggio. Questo mi dava un senso di parità. Poi comunque mi impegnavo a migliorare il mio corpo.                                                                                                           

D. - Nel lavoro domestico c'era qualche cambiamento?                                                     

R. - Continuava a gravare su di me, comunque a poco a poco, l'ho sentito meno come dovere ed ora non confligge più con i miei interessi: se devo fare qualcosa di mio tralascio il lavoro in casa e lascio che gli altri si organizzino da soli.                                  

D. - E con suo figlio, cambiava il suo atteggiamento?

R. - Si sono cambiata. Ora riesco a lasciarlo da solo e ad occuparmi di più di me stessa, quando capita ad esempio di uscire per fare qualcosa che mi piace e che desidero fare. Prima invece mi sentivo obbligata a stare a casa anche quando lui non ne aveva bisogno. Oggi esco anche quando lui desidera che io stia in casa, o quando sarebbe necessario per lo studio. Ora inoltre impongo anche a mio marito certi compiti e responsabilità. Il giorno che ho da fare dico: "io oggi alla tale ora esco". Per cui se mio figlio deve andare dal dentista è chiaramente il padre ad accompagnarlo. Cosi oggi dico a mio marito di fare questa o quest'altra cosa: per esempio ho detto a mio marito che bisognava andare a parlare con gli insegnanti di nostro figlio per cui si doveva rendere disponibile; gli ho messo in mano l'elenco degli insegnanti e dell'orario di ricevimento e lui c'è andato senza fare storie.          

D. - In passato cosa accadeva invece?                                                                                   

R. - Non glielo avrei neanche detto, credo. Sarei andata io a parlare, poi sarei tornata a casa con il muso perché ce l'avevo con lui. Non glielo avrei detto perché le consideravo cose ovvie che lui avrebbe dovuto capire. Lui non le capiva ed io non le dicevo; conclusione si creava una atmosfera familiare poco piacevole, ora invece sono più consapevole di quello che voglio, per cui tiro fuori quello che ho da dire.           

D. - Senta, ora dopo la conclusione dell'intervento cosa pensa di se stessa?                           

R. - Ora mi sento più normale. Più vicina a quelle persone che invidiavo. L'ho potuto verificare qualche tempo fa, quando ho incontrato quella amica di cui ho parlato, che consideravo un modello, nel senso che riusciva a fare scuola, casa e ad avere altri interessi, e che vedevo diversa da me. Stavolta incontrandola l'ho vista con occhi nuovi: con i suoi difetti. Prima mi sembrava perfetta ed io mi sentivo completamente incapace rispetto a lei. Oggi certe cose le posso fare anch'io se mi vanno e se mi stanno bene. Ho ancora dei limiti ma ho fiducia nel poterli superare.                                                       

D. - Cambiava allora il suo modello?                                                                                            

R. - Si, nei due sensi. L'amica era il modello che avrei voluto essere ma verso cui mi sentivo completamente incapace mia madre era il modello che dovevo essere, nel quale a detta degli altri riuscivo ma che mi procurava molta insoddisfazione. A questo punto il modello di oggi sono le cose che voglio fare, perché mi piacciono, rispondono ai miei interessi, e le cose che mano a mano riesco a fare.         

D. - Cambiava il giudizio che dava di se stessa?

R. -  In un certo senso mi rivalutavo. Ho cominciato a vedermi capace di fare una serie di cose come: uscire da sola, camminare a piedi, prendere la funicolare, andare in un mezzo pubblico.          

D. - In che altro si è rivalutata?     

R. - Oggi mi sento più capace di stare con gli altri, ero arrivata al punto di non sostenere lo sguardo dell'interlocutore! Oggi riesco a trovare il tempo per leggere, informarmi, di interessarmi a specifici problemi e tutto questo mi permette di affrontare i rapporti con gli altri, di scambiare opinioni, parole senza sentirmi incapace e non all'altezza della situazione. Poi oggi riesco a capire quali sono i miei desideri e a soddisfarmeli. Per tanto tempo sono stata  rintanata in casa, pensando che quello era proprio il mio desiderio e invece ho scoperto che desidero al contrario stare fuori casa. Quando          vedo una bella giornata mi viene la voglia immediata di uscire di stare all'aria aperta.            

D. - Oggi non si percepisce più una persona malata? E i sintomi?  sono scomparsi?            

R. - Sintomi sono andati via man mano, tranne il riaffiorare qualche volta in certe situazioni. Poi ho cominciato a pensare me non come una persona malata ma come una che si era addossata, nel corso degli anni passati. troppi oneri e che poi aveva avuto un rifiuto, un desiderio di non volerlo più fare, e poi su questo si è manifestato il disagio.                       

D. - Gli altri come giudicano il suo cambiamento?

R. - Non é che mi abbiano dimostrato troppo di averlo notato, tranne qualche considerazione sul fatto che vedono che io sto meglio si compiacciono di questo fatto perché non mi lamento più di non sentirmi bene, del fatto che non posso uscire, che non posso fare questo e quest'altro.                                                  

D. - Cosa pensa ora di quello che le hanno detto i medici? Delle cure farmacologiche che ha praticato prima?

R. - Ho capito che il medico é impotente di fronte a questi problemi, visto che la loro natura non è fisiologica. Dei farmaci penso che possono aiutare nella fase acuta, come è capitato a me quando mi sono rivolta al neurologo. Però neanche quelli possono risolvere il problema

D. - Quali vantaggi le sono venuti per il fatto che si trattava di un servizio per le donne con operatrici donne?

R. - Sono venuta a questo Servizio proprio perché avevo letto in quell'articolo che si trattava di un Servizio per le donne, pienamente consapevole del fatto che loro potessero meglio seguirmi e calarsi proprio nei miei problemi. Sono convinta che un uomo non sarebbe riuscito a farlo.  

D. - Vi sono state difficoltà nel corso dell'intervento?

R. - Mah! non troppe perché l'operatrice è stata in grado di mettermi subito a mio agio, quindi sono riuscita a parlare anche di cose che non avrei detto neanche a me stessa. Certo a volte vi sono state delle difficoltà me lo faceva notare proprio la dottoressa. diceva che diventavo agitata quando si toccavano certi argomenti come il rapporto con mia madre, per esempio. A parte questo non ho avuto problemi.

D. - Quale l'atteggiamento dei suoi familiari nei confronti del Servizio? Vi sono stati ostacoli, critiche ?       

R. - No nessuno mi ha ostacolato. Non c'é stata forse molta fiducia, credibilità da parte di mio marito. All'inizio ero dell'avviso quando tornavo a casa dopo un colloquio di doverlo mettere al corrente di quanto si era detto. Però vedevo da parte sua una         mancanza di partecipazione, vedevo che da parte sua non c'era fiducia, ma non è che mi ha mai detto qualcosa. Poi su consiglio della psicologa del Servizio non l'ho più fatto.         

D. - Quanto è durato l'intervento?       

R. - Circa diciotto mesi, prima con una frequenza settimanale e poi quindicinale.         

D. - Ora lo considera concluso?        

R. - In sostanza si, però mi fa piacere pensare di poter tornare ogni volta che ne sento il bisogno. Certo non più per i problemi di prima ma per poter a volte confrontarmi su cose nuove che mi possono  capitare.