CENTRO PREVENZIONE SALUTE MENTALE DONNA

Responsabile: dr. Elvira Reale

 

 

 Carla e la psoriasi      

 

 

 D.- Qual é stato il problema che l’ ha condotta al Servizio?                  

 R.- Avevo un po' di difficoltà a capire quale era il problema. veramente . C'era una grossa confusione mentale. Comunque un problema l'avevo individuato: era cercare di vedere cosa fare per vivere meglio. Ho capito poi, di volta in volta durante il corso         dì questa esperienza, quale era il mio problema.      

D. - Fermiamoci al momento in cui è venuta la prima volta al Servizio.  

R. - Sono venuta perché avevo un malessere di fondo, che forse si manifestava in modo più visibile con una malattia della pelle; io ho avuto la psoriasi, forse ce l'ho ancora perché la psoriasi è una malattia recidivante, non so se mi è passata definitivamente. La psoriasi non è stata la causa della mia venuta al Servizio: per la psoriasi già mi curavo da due anni. Sono venuta qui per problemi di ordine più generale; non mi accettavo e volevo riuscire assolutamente a modificare molti aspetti del mio carattere. Il problema concreto che ho portato al Servizio é stato il rapporto con mia madre, e il rapporto sentimentale con un uomo che è fallito.       

D. - Secondo lei i suoi problemi da cosa dipendevano?       

R. - Da me, dal mio modo dì vedere le cose, dalla mia ansia, dalla mia  problematicità.     

 

D. - Pensava che i suoi problemi fossero risolvibili? 

     

R. -   No si radicavano troppo lontano nel tempo, risalivano alla mia adolescenza ed anche prima; risalivano al modo come sono stata sempre trattata dai miei familiari e anche da altre persone come le mie insegnanti. Si trattava insomma di cambiare un atteggiamento di fondo verso la vita, un atteggiamento di profonda insicurezza.   

D - Quali allora sono state le radici di questo suo problema

R. -   Ho avuto una esperienza scolastica che é stata determinante nella mia vita. Fino alla terza media ho avuto problemi di salute, si trattava di' una sepsi reumatica; allora ho sempre giocato il ruolo della bambina malata. Ero molto buona, poco vivace e poco intelligente: questa l'immagine che avevo di me. Contro questa immagine ho dovuto combattere per dimostrare a me ed agli altri che le cose non stavano così. 

        Di mia madre al contrario avevo una immagine positiva: di donna sicura. 

E mia madre mi è sempre stata dietro in tutte le mie scelte: alla Scuola media ad esempio mi fece frequentare una  classe dove c'era una sua amica che insegnava. Questa era una intellettuale molto preparata e molto amica di mia madre. Era a conoscenza dei miei problemi in famiglia e lei comunicava a mia madre i miei problemi scolastici. In tutto questo avevo poca libertà di esprimermi.  

        Il giudizio di questa insegnante alla fine della scuola media    fu di "caratteriale" sul piano  comportamentale e sul piano intellettuale di persona non troppo capace a svolgere studi impegnativi. Il giudizio di “Caratteriale" che io lessi in seguito fu forse determinato dal fatto che io in classe ero irrequieta: mi ricordo che avevo dei pantaloni di flanella grigia che mi davano prurito per cui preferivo non stare seduta, poi prendevo molto cortisone e questo mi rendeva smaniosa. Poi mi ricordo di un periodo in cui "vedevo" il naso, e questo problema lo portavo fuori di me e dicevo in classe che “vedevo il mio naso”.             Tutto ciò ha probabilmente indotto questa persona a definirmi caratteriale. 

        Su consiglio di questa insegnante fui iscritta da mia madre ad una scuola professionale. Fatti i tre anni andai  a lavorare in un impresa di costruzione per altri due anni. A 18 anni decisi di riprendere la scuola e di fare gli altri due anni del  corso. Fu una decisione mia, volevo a tutti costi andare all' Università come mio riscatto. 

        Questa idea del riscatto non mi ha mai abbandonata, e nella mia vita mi ha dato molta ansia: devo fare le cose più difficili per dimostrare a me stessa che riesco a farle.

D. - Come si considerava  allora?

R. - Incapace. Sempre ho vissuto gli altri come capaci e me come incapace. Mi sono sempre considerata  "l'ultima schifezza". Se le cose mi vanno bene dico che sono fortunata. Quando dopo tante lotte, anche per poter studiare perché a casa non c'era lo spazio fisico per farlo (non avevo un posto per studiare) mi sono laureata con 110 e lode mi sono detta :questa volta mi è andata bene. 

D. - Da cosa faceva dipendere questa incapacità?

R. - Da questa mia storia, io ritengo che da questa mia storia dipenda l'idea della mia incapacità.

D. - In famiglia in particolare qualcuno la considerava incapace?

R. - lo pensavo già a mia madre ma quando in questa esperienza si è tentato di dare un nome all'origine di questo mio senso di insicurezza mi sono ribellata moltissimo. Avevo paura che venisse fuori un quadro feroce di mia madre, inizialmente l'ho difesa e ho comunque addossato la colpa dei miei atteggiamenti a me sola.

D. -  Quali erano in concreto gli atteggiamenti di sua madre?

R. - Protettivi, super protettivi .Per questo sono sempre cresciuta nell'ottica di dover dimostrare a mia madre che ero capace.

D. - Da cosa dipendeva questa protezione?

R. - Innanzitutto dalla mia situazione fisica: la Malattia che ho avuto intorno ai dieci anni (sepsi reumatica); poi il fatto che mi sono sempre raccontata a mia madre. L'unica cosa che soro riuscita a non dirle é stato …………..

D .- Perché si "raccontava" a sua madre?

R. -  Penso che sia dipeso dal modo come lei ha stabilito il rapporto con me. Come una amica. In effetti mia madre era diversa dalle madri delle mie amiche; mia madre ha militato nella politica, ha fatto comizi, ha fatto il lavoro politico con le donne nei quartieri., è stata in tante cose all'avanguardia. Si presentava a me come una madre diversa che instaurava con me un rapporto di amicizia e solidarietà. E così mi consideravo fortunata di avere questa madre e mi veniva spontaneo raccontarle tutto. A 14 anni mia madre - cosa difficile per le altre ragazze - mi autorizzava ad uscire con un ragazzo ed era mia complice in questo. Il suo consenso mi dava tranquillità poi questo si é ritorto contro di me. Col fatto che le raccontavo tutto riusciva ad avere una grandissima influenza su di me: mi consigliava mi diceva come era meglio che mi comportassi ecc., limitava le mie capacità personali di scelta.       

D. - Senta: i suoi problemi poi si sono acuiti? Quando in particolare? E come stavano le cose quando si è  rivolta al Servizio?    

R. - E' cominciato con una mia storia affettiva con un uomo sposato. Lì sono stata malissimo, come anni fa quando ebbi un'altra storia finita male con un medico. Allora era il……, finiva una storia nella quale avevo creduto; la mia scelta universitaria dipendeva da questo rapporto: allora avrei preferito fare il corso di medicina, poi scelsi un’altra cosa (…..)  per non interferire con la carriera dì questo ragazzo con il quale si era fatto un  progetto di vita insieme. Quando il rapporto finì ebbi un periodo in cui vomitavo sempre.  Per questo mia madre mi fece ricoverare nel reparto neurologico dell'Ospedale Cardarelli. Poi ci fu quest'altro rapporto intenso nel 1980. 

        Durante questi anni ho avuto un rapporto più o meno stabile con un'altra persona della quale non mi sono mai sentita veramente innamorata. Poi allora conobbi questo collega di lavoro era un rapporto che inizialmente mi rese felicissima perché racchiudeva tutte le mie aspirazioni: di avere un rapporto di innamoramento e di avere nel rapporto affettivo anche una grossa intesa lavorativa. Allora si trattava di un lavoro pionieristico ed io mi sentivo soddisfatta. forse per la prima volta in vita mia. Poi tutto precipitò e divenne confuso. 

        Lui era sposato e cominciarono i guai; fui additata dalla famiglia di lui (moglie e madre) come colei che aveva distrutto la felicità coniugale. Furono coinvolti i miei genitori e mia madre mi colpevolizzò moltissimo; mi disse: "Non me l'aspettavo da te che ti dichiari femminista, mia madre mi fece sentire una ladra,  una che ruba gli uomini alle altre donne. La mia psoriasi che covava da alcuni anni in forma lieve si cominciò a scatenare allora, in concomitanza con questi avvenimenti. In più allora c'era in ballo la questione dell'America. 

        L'America é stata sempre il mito del gruppo di ricerca in cui sono inserita; allora io avevo molte più possibilità di andare a fare un anno di esperienza in America,  avevo più possibilità di quest'uomo di cui ero innamorata. Infatti quando ambedue scrivemmo in America ad un istituto di ricerca presentando i nostri reciproci titoli, la mia domanda allora fu accolta e la sua no. 

        Poi il modo come avevo vissuto questa storia le energie e la disperazione che ci avevo messo dentro mi bloccarono, in più in quel periodo accadevano gli avvenimenti, di cui dicevo prima, il coinvolgimento dei miei genitori nella nostra storia e in particolare, una notte in cui telefonò la moglie a casa mia, mio padre ebbe un infarto. Mi sono sentita molto in colpa per questo infarto di mio padre. 

        Tutte queste cose mi bloccarono o mi fermarono allora nella scelta di partire; in conclusione io non parti' ma partì lui. Io sono venuta al Servizio dopo che quest'uomo è partito per l' America. Partendo mi ha detto: io vado in America per dare più equilibrio al nostro rapporto.

Quando sono venuta qui ero confusa, avevo una fortissima ansia, mal di stomaco a volte il vomito, spesso non dormivo e soprattutto la percezione di aver fallito. C'era poi la psoriasi, la menziono sempre per ultima, ma in questi anni per due volte (nei mesi di marzo e aprile) sono stata ricoverata in uno stato pietoso. Avevo dolori per tutto il corpo, e soprattutto le gambe gonfie talmente da non permettermi di camminare, per non parlare del problema estetico che mi creava! 

D.- Che giudizio dava di questa sua condizione di malessere?

 

R - Per me il malessere era questa storia affettiva andata a male, come fatto scatenante, poi il perpetuarsi del malessere l'ho sempre associato ad una storia più remota: quella della mia adolescenza la mia storia di vita che mi ha resa così insicura.

D - Nel corso dell'intervento, si ricorda come sono stati affrontati i vari problemi? Percepiva una modifica nel suo modo di vedere e valutare i problemi?

R -  Nel corso dell'intervento i problemi sono stati messi a fuoco. Oggi ho difficoltà a ricostruire tutti i passi fatti nel momento in cui si facevano. Sicuramente vi é stato un graduale spostamento dell'ottica: i problemi ad esempio si sono modificati alcuni sono stati messi in secondo piano, altri in primo piano rispetto all'ordine con cui io li avevo prospettati e portati in discussione. 

        Un problema che è stato messo in secondo piano è stato quello della mia incapacità come modo di essere di sempre; in primo piano sono stati portati invece i problemi quotidiani. Mi ricordo che alcune volte ho protestato per questo andamento del discorso mi aspettavo di discutere di me a partire da me e non dai fatti che mi succedevano intorno. Ho a volte tirato in ballo la psicoanalisi come intervento terapeutico più adatto al mio caso, ritenevo infatti che si dovessero esplorare territori più remoti della mia coscienza, avevo il timore che le mie parole non corrispondessero pienamente a ciò che io sentivo, come desideravo qualcosa che le scavalcasse e arrivasse a me direttamente, in sostanza non mi fidavo di me, delle mie parole, delle mie rappresentazioni della realtà. 

        Ciò che dal primo momento si è discusso ha riguardato: il rapporto con mia madre, con il lavoro e con gli altri, e in particolare con gli uomini della mia vita. Questi problemi erano legati insieme e quindi la loro discussione ha preceduto in modo congiunto. Ciascuno dei vari problemi ha trovato però in tempi diversi una propria collocazione.

D.- Vediamo allora di scomporli provvisoriamente e di parlare di un problema alla volta,  rispettando per quanto possibile le sue fasi di sviluppo e di cambiamento.

R - Cominciamo allora da mia madre. Ho avuto con mia madre questo rapporto di grossa fiducia e apertura, l'ho considerata sempre come una donna capace. Quando sono venuta qui capivo che il rapporto non andava, che dovevo staccarmi da mia madre, ma ad esempio, pur avendo affittato un piccolo appartamento da sola, non riuscivo a trasferirmici. 

        Poi man mano é venuta fuori un'altra immagine di mia madre: una donna anche essa insicura, con i suoi problemi di donna, non più un modello da eguagliare.  

        Due episodi in particolare hanno piano, piano modificato questa percezione: uno riguardava la mia adolescenza ed un altro la sua vita attuale con mio padre. 

        Si è analizzato, attraverso un episodio in cui mia madre non era riuscita ad imporsi con mio fratello, e come mia madre in famiglia sottostasse alle regole del patriarcato.  Pur essendo lei sul piano pubblico una donna emancipata e sicura, in famiglia era una donna qualunque come tutte le altre, timorosa di prendere posizione contro certe regole maschili. Nel caso di cui parlo io ero uscita con un ragazzo, con la complicità di mia madre; al ritorno a casa, mio fratello che mi aveva vista, ha cominciato a picchiarmi, mia madre non ha osato dire che io ero uscita con la sua autorizzazione. In sostanza questa complicità di mia madre avveniva però all' interno di un mondo di subordinate. 

        L'altro episodio riguarda il rapporto tra mia madre e mio padre: mia madre per la prima volta si è messa a nudo con le sue insicurezze di donna di una certa età nei confronti dì un uomo che tende ad essere e mostrarsi più intraprendente con le altre donne. A poco a poco l'immagine di mia madre si è messa a fuoco, e questo mi ha dato la possibilità di operare un distacco senza provare angoscia. Quando mi sono trasferita nel mio appartamento ad esempio ho smesso di fare un sogno che riguardava mia madre morta. Questo distacco dalla madre ha significato cominciare a non dirle più le cose e a non lasciami più coinvolgere dalla famiglia. Fino ad allora ero infatti stata coinvolta  nei fatti di famiglia anche dalle sorelle di mia madre.

 

        Per quanto riguarda il lavoro, ho portato in discussione il mio senso del fallimento. Mi ero bloccata su un esperimento che non mi riusciva. Si è qui cominciato ad analizzare il rapporto con il lavoro e soprattutto il modo con cui io mi rapportavo agli altri sul lavoro. C' era da parte mia un essere sempre disponibile con altri (professore, colleghi, tecnici) nel senso di essere sempre pronta a raccogliere le ragioni altri senza troppa considerazione delle mie. Una modifica graduale è consistita nell'assumere un atteggiamento più deciso e imperativo per le questioni di mio interesse. Ma rimaneva per quanto riguarda il lavoro la sfiducia determinata dal fatto che comunque l'esperimento non riusciva e mi sembrava di essere l'unica in questa situazione.

 

        Sul piano dei rapporti le cose si sono complicate. In un primo tempo dopo aver chiuso dentro di me il rapporto con il collega. che intanto era partito per l'America ma continuava a darmi messaggi ambigui del tipo: "ti amo ma non posso", ecc., avevo ripreso il rapporto con il mio compagno con cui stavo da anni.

          Poi man mano mi sono aperta ad altre esperienze di rapporto cercando di vivermi le cose piacevoli senza troppe costruzioni intorno. Devo dire che la cosa mi è riuscita solo a tratti, per altro sono stata molto colpevolizzata dagli amici che parteggiavano per il mio compagno e mi dicevano che ero una instabile.

 

        Un altro passo importante é stata poi la ridefinizione di questo rapporto: mi sono liberata di alcune idee tipo quella dell'innamoramento. Ritenevo che essere innamorati significasse dare e avere esclusività sul piano emotivo sentire in ogni incontro con l'altro "un rumore di campanelli". A poco a poco mi sono liberata di questa idea perfezionistica e assoluta e in questo modo il rapporto con questo compagno si è per me equilibrato e ha trovato una sua collocazione.

D. -  Che cosa non cambiava?

R. -  La psoriasi. E' stato l'elemento per il quale sicuramente mi sano sentita malata. Vi è stato anzi un peggioramento graduale fino a quando i medici mi hanno detto che non potevano più curarmi, che le radiazioni che facevo erano inefficaci e che in sostanza la psoriasi la producevo io.

D. - Ma era stata messa in discussione la psoriasi? 

R. - In effetti no, se ne parlava a volte per gli effetti estetici di cui io mi lamentavo, ma siccome quando sono venuta qui già praticavo una cura specifica, questa non é mai stata messa in discussione. E’ successo dopo, solo quando i medici hanno incrociato le braccia..si è aperta qui un accesa discussione. Da quel momento in poi ( 14 mesi dopo l'inizio della terapia) la psoriasi è stata messa al centro del discorso come  elemento di verifica di certe scelte che si facevano.

D - Quali poi sono stati ì cambiamenti finali, o tutto ciò che   ha percepito come cambiato rispetto all’inizio dell'intervento?

R -  Sicuramente questa é la parte che meglio ricordo dell'intervento: si tratta delle acquisizioni ultime, di un nuovo atteggiamento verso la vita che sto iniziando a sperimentare e a sentire come mio. In tutto il corso dell’intervento sentivo che avevo difficoltà a vedere le cose diversamente da come io le avevo poste, difficoltà ad accettare un altro punto di vista, però cercavo dì appropriarmene per vedere se mi andava meglio. Questo atteggiamento nuovo, questa condizione mentale per me sicuramente nuova é non vedere più la crisi dentro di me ma fuori di me. Oggi comincio a muovermi in questa direzione, oggi che é finita la terapia sperimento da sola questo nuovo modo di essere e di sentirmi. Questa nuova sicurezza si è costruita con più solidità quando sembrava tutto perduto: la psoriasi viaggiava per conto suo senza un controllo medico e il lavoro andava malissimo. In quel momento vi è stata una svolta decisiva.

D -  Ce la può raccontare?

R -  Quando ho detto alla dottoressa che i medici non sapevano più che farmi, é venuto fuori con insistenza maggiore il discorso di legare la mia psoriasi con il lavoro, di legare cioé il mio malessere più grosso con la scommessa della mia vita più grossa che avevo fatto. La terapeuta si è assunta la responsabilità di dirmi che era necessario mettere in crisi il mio lavoro e forse anche buttarlo a mare. Ho reagito malissimo inizialmente al lavoro era ancorata tutta la mia ansia di riuscire nella vita , di dimostrare agli altri che non era una incapace come sempre mi avevano fatta sentire. C'e stato in quel momento un atteggiamento di grossa decisione da parte del tecnico qui : percepivo che non aveva dubbi.

        D’altra parte il lavoro rimaneva come la cosa che mi stava man mano uccidendo. Stavo a controllare dodici ore al giorno le mie cellule perché ancora una volta non morissero, vivevo un'ansia pazzesca e nonostante tutto quello che facevo le cellule continuavano a morire. Arrivai a pensare che ci fosse qualcosa nelle mie mani, una sorta di fluido negativo. D’altra parte gli altri mi dicevano che le loro cellule non morivano: sembrava che solo le mie morissero. Pensavo sempre più fortemente che ero incapace e che commettevo degli errori nell'impiantare l'esperimento. Ero diventata la psoriasi, tutta una crosta in questo periodo.

        La dottoressa  cominciò, nonostante io opponessi una strenua resistenza a questi discorsi che mi sembravano distruttivi, a farmi intravedere la possibilità di un altro tipo di lavoro non legato alla ricerca universitaria.

        Poi ci fu un'analisi del mondo della ricerca in Italia e in particolare a Napoli: l'analisi riguardava le persone che generalmente la facevano, la loro collocazione sociale,i loro appoggi economici, le condizioni in cui si svolgevano le ricerche e cioè le strutture, ed infine un'analisi sull'atteggiamento del mio professore. A mano a mano sì profilava una responsabilità collettiva nella riuscita del mio esperimento individuale, che cominciò a farmi vedere le cose in un altro modo. Mi ricordo che dopo poco che avevamo iniziato questo discorso mandai a fuoco inavvertitamente tutte le cellule distruggendo la cappa dove erano collocate. Fu un elemento tragico e divertente insieme. 

        Da li cominciò la ricerca delle cose che non andavano al di fuori di me: scoprii che c'erano le muffe nell'ambiente esterno (nella cappa) che erano responsabili della morte delle cellule, che mancavano una serie di strumenti o che essi erano inadeguati. Vidi finalmente da vicino il disinteresse del mio professore preso dai suoi problemi personali. Mi resi conto che la struttura in cui operavo la ricerca non era assolutamente adeguata a questo specifico lavoro, che ero sola che non avevo alle spalle l'appoggio e l'esperienza tecnica del professore per il quale lavoravo. 

        Ed inoltre era un esperimento all'avanguardia su cui non c'era molta possibilità di trovare interlocutori. In quel momento mi sganciai dalla ricerca feci un altra cosa: il corso per il dottorato. Mantenevo sempre un piede nel laboratorio in attesa che arrivassero le cellule nuove. Contemporaneamente partecipai al ad un concorso pubblico altrove.  

        Non mi sembrava più una tragedia non dover fare più la ricerca; cominciavo a riflettere sui vantaggi di un lavoro più soddisfacente sul piano dei riconoscimenti tra cui anche quello economico. In effetti il lavoro di ricerca mi dava pochissimi soldi e mi richiedeva sacrifici enormi. Nel corso per il dottorato sperimentai in me un atteggiamento molto critico nei confronti del tipo di organizzazione e di richieste di apprendimento che venivano fatte dai docenti. 

        Ritornai poi al laboratorio con una nuova consapevolezza: di non attribuire più a me eventuali fallimenti, e di maggiore fiducia nelle mie acquisizioni. Alla fine sono riuscita a far si che le cellule non morissero tutte e a mantenere le condizioni dell' esperimento. Contemporaneamente a questa messa in discussione del lavoro la mia psoriasi andava scomparendo: al posto delle croste venivano fuori delle meravigliose chiazze bianche.

D - Ha superato la psoriasi attaccando la sua idea di incapacità nel lavoro?

R – si, sicuramente, ma al tempo stesso ridimensionando l'idea perfetta che avevo della ricerca, e soprattutto l'idea che quello era l'unico campo in cui dovevo dimostrarmi brava. Per me era inconcepibile cambiare progetto, fare altro, e questo l'ho capito sempre perché dovevo dimostrare qualcosa a qualcuno, questo per me costituiva un grosso peso, una grossa ipoteca che mi rendeva acritica nei confronti della realtà delle cose circostanti. Non volevo vedere la crisi fuori di me; per salvare questo progetto, la bontà di questo progetto, ero disposta a distruggermi Ho cominciato quindi a sentirmi meno incapace quando l'esterno è diventato meno perfetto e quando ho cominciato ad attribuire meno valore alla ricerca.

D - Ci sono state altre modifiche?

S -  Si, come dicevo prima, c’è stato un cambiamento nel modo di vedere il rapporto con il mio compagno di sempre. In questi anni il rapporto mi ha costantemente creato una serie di problemi: sono veramente innamorata? viviamo insieme? Ci sposiamo e facciamo un figlio? Non andiamo a vivere insieme? Ci lasciamo? Mi sono posta continuamente delle domande senza riuscire a darmi delle risposte soddisfacenti Alla fine si è valutato proprio qui che, se questo rapporto durava da tanto tempo doveva significare delle cose per me importanti. Certamente questo rapporto significa la mia voglia di fare una esperienza di convivenza con un uomo, di avere un figlio. E mi sono chiesta se c'era qualcun altro con il quale volevo fare le stesse cose e la risposta é stata no. Così ho deciso di fare un ulteriore passo avanti di andare a vivere con quest’ uomo, di sposarmi,anche,eventualmente e poi di stare a vedere. Mi sento disponibile anche ad ulteriori cambiamenti.

D -  E l'innamoramento come lo vede oggi?

R - Oggi lo considero una fase passeggera. Per due anni ho detto che ero e mi sono sentita innamorata di un uomo, e in che cosa consisteva ciò? Nell’essermi annullata completamente per quest'uomo.

        Oggi mi sento più disponibile verso un discorso diverso che si è fatto in questa sede: vorrei mantenere la mia libertà di avere più esigenze e di non saturarle tutte con una stessa persona. Mi piacerebbe prendermi cose diverse da più persone per poi riunirle e tenerle unite dentro di me.

D - Che immagine ha di sè oggi?

R - Di essere una persona diversa , mi sento più libera; soffro meno e accetto dì più i miei modi di essere: riesco anche a “volermi bene”.

D -  E’  cambiato il  modello di donna cui si riferiva?

R - Ho sempre avuto il modello della donna autonoma, che riesce nel lavoro, efficiente, che sa prendersi certe libertà.

D - Nel corso dell'intervento ha modificato questo modello?

R – si, un pò l' ho modificato. Questo modello in realtà è il modello di una donna eccezionale, bravissima, che non sbaglia mai, non ha perplessità, sa sempre quello che vuole. Ho imparato nel corso dell'intervento a non vedere questa donna come perfettissima, che non sbaglia; oggi può anche sbagliare, ecco ho imparato a tollerare l'errore, a  concedermelo.

D - Quanto é durato il rapporto con il servizio?

R -  Circa due anni con delle interruzioni (due,di alcuni mesi) per i ricoveri per la psoriasi. Sono venuta con una frequenza discontinua, a volte ogni settimana. a volte ogni quindici giorni. Dipendeva molto dagli impegni di lavoro: non mi concedevo molti spazi per me stessa. Poi nell'ultimo periodo ho deciso di darmi spazio e sono venuta con più regolarità.

D -  Si è sentita pronta per la chiusura del rapporto?

R -  Penso di si, in effetti questa esperienza l'ho vissuta come un tirocinio, ora mi sento pronta ad iniziare e sperimentare le cose da sola.

D -  Il fatto che si è trovata in un rapporto con operatrici donne le ha creato difficoltà?

R - Certe cose si possono trovare anche nella vita quotidiana. Molte cose che mi sono state dette qui mi sono state dette anche fuori. Penso però che per una persona che prova disagio sia importante trovare un punto di riferimento nell'istituzione; trovare un posto specifico in cui dire della cose ed avere delle risposte. Spesso mi é stato detto da altre persone che non è terapeuticamente valido il fatto che una persona ti dia delle risposte. Infatti prima di venire qui mi immaginavo di dover raccontare solo i sogni. Invece abbiamo litigato e abbiamo riso: è stata una esperienza molto vivace anche con i suoi momenti difficili. Una esperienza del genere penso serve a sfatare dei miti sulla terapia e a creare maggiori possibilità affettive tra la gente. Scoprire che una persona ti ascolta una volta alla settimana per tante settimane ti dà un senso di solidarietà che serve anche fuori, anche se fuori sai che una cosa del genere è difficile trovarla.

D - Senta un'ultima cosa, vi sono stati momenti di conflittualità con l’operatrice?

R – C’è stata molta conflittualità in genere sulle cose che si discutevano, da parte mia c'era una riluttanza a modificare quegli atteggiamenti che poi si sono scoperti essere fortemente implicati con il malessere. Ricordo però una cosa in particolare: quando i medici mi hanno abbandonata rispetto alla mia psoriasi non ho avuto fiducia che tutto si potesse risolvere con il rapporto che avevo qui e mi sono rivolta anche ad un omeopata. Io per la prima volta mi sono presa la libertà con me stessa di non scegliere ma di tenermi tutte e due le cose insieme.

D - Oggi però può avere dei dubbi sul come le é passata la psoriasi allora?

R – Non ho voluto problematizzarmi allora è questo è stato un atteggiamento nuovo per me: sono rimasta a guardare cosa succedeva. Devo dire però che il rapporto con l'omeopata ha inciso pochissimo su di me: si é trattato di prendere una pillola in sei mesi e di raccontare all'omeopata i miei disturbi fisici in un paio di incontri. Non attribuisco certo a ciò il mio benessere di oggi! tanto più che l'omeopata mi parlò di una cura di anni e di iniziali peggioramenti. Tutto invece si é risolto molto rapidamente perché c'era il lavoro fatto alle spalle e c'era soprattutto la previsione del collegamento tra la psoriasi e il mio cattivo investimento nel lavoro. Modificato quello è stato quasi immediata (nel giro di due mesi) la scomparsa del sintomo.

D -  Non ha più paura che le venga la psoriasi?

R -  Questa paura ce l'ho ma ora so che non farei certe cure mediche che  sono anche pericolose (teratogene) e so che avrei più strumenti per fronteggiarla.